Medio Oriente: una partita aperta

Scritto dasu 17 Settembre 2014

 

ISIS-Syrian-Rebels-Obama-CIA-640x390Capire cosa succede in Medio Oriente è più che mai necessario. La natura di questi conflitti, che hanno mascheramenti spesso mutevoli, è chiara se si comprende chi sono gli attori, quale strategia di lungo periodo (o medio, a seconda degli attori) hanno, e quali sono gli interessi in gioco; il tutto al di là degli aggiustamenti tattici dettati da contingenze che cambiano molto velocemente.  Senza andare troppo al di là di quanto si vede, è certo che gli USA hanno bisogno di un posizionamento che gli consenta di guardare a Oriente (leggasi Cina) con più tranquillità.

Gli Usa non sono più la potenza economica indiscussa per eccellenza ma sono dotati di un apparato di intelligence ramificato su tutto il globo che ha cresciuto e piazzato uomini chiave in tutti i continenti. Se il suo potere economico è calato, è cresciuta invece la sua capacità di ingerenza più o meno covered negli affari di molti paesi, in particolare a partire dal crollo delle potenze sovietiche che ha liberato gli Usa da un fardello notevolissimo.

Detto questo e detto anche che non è in discussione se gli Usa abbiano finanziato l’Isis o forze che hanno contribuito a crearlo, con forza dobbiamo rigettare letture dietrologiche che si limitano a vedere dietro ogni cosa una regia onnipotente e onnisciente (made in Usa ovviamente), fino a definire le primavere arabe, come qualche giorno fa il blog di Grillo, come una macchinazione largamente pilotata dall’esterno per arrivare poi alla Libia, alla Siria e da lì all’Isis. Il sale di simili ragionamenti sta nel loro potere taumaturgico. Consolatorio nell’impotenza. Anzi, una bella scusa alla propria impotenza perché tanto, e comunque, le jeaux son faits, rien ne va plus. 

Gli Usa lavorano sull’Islam politico almeno da quarant’anni. Prima in funzione antisovietica, quando a essere finanziati erano i mujaidin afghani. Poi il nemico divenne quella sorta di nazionalismo panarabo e socialisteggiante che fu incarnato da Nasser. Ora è la volta della Siria e così John McCain è immortalato seduto al tavolo dei ribelli siriani “moderati”, a parlare con Al Baghdadi, ora ufficialmente califfo del terrore.

Oggi la strategia Usa punta dritto all’Iran e a quell’Asse della Resistenza composto da Teheran, Damasco ed Hezbollah in Libano, con l’islamismo sciita a rappresentare, per certi versi, ancora una spina nel fianco dell’Occidente, al contrario di quello sunnita “normalizzato” grazie alle monarchie del Golfo e alla definitiva capitolazione di Saddham in Iraq.

Come dicevamo in apertura la Cina è il vero obiettivo e molto probabilmente, se la questione ucraina non avesse messo la Russia in una posizione difficile dal punto di vista del diritto internazionale, gli Usa si sarebbero anche piegati a un accordo con l’Iran, per cui l’Isis è certamente un nemico, lasciando in pace il regime di Assad.

In questo risiko tremendo che maciulla uomini, bestie e cose la vera anomalia, la “buona novella” mediorientale è la resistenza curda. Non quella dei peshmerga del PDK che l’Occidente ha deciso di armare e che erano già parzialmente integrati nell’esercito iracheno messo in fuga dall’Isis, ma quella del Rojawa, nel nord della Siria. Pensiamo ovviamente al partito dell’unione democratica strutturato militarmente nel YPG (Unità di difesa popolare) e YPJ (Unità di difesa delle donne). Stretto alleato del PKK, sia dal punto di vista militare che politico, condividendone fino in fondo la proposta politica e adoperandosi per concretizzarla nei territori del Rojava. Qui, al momento dell’insurrezione contro il regime siriano, non si è schierato né con il regime di Al-Assad né con i “ribelli siriani”, praticando la liberazione e la difesa del proprio territorio per amministrarlo, insieme ad altre realtà politiche e sociali non necessariamente curde, in quella che è stata definita una “democrazia cantonale dal basso”.

Ne abbiamo discusso con Lorenzo Carrieri, borsista presso la Saint-Joseph University di Beirut.

 

Lorenzo


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