8 maggio 1945. Guerra finita, nazi-fascisti sconfitti. Ma in Algeria non sembra…

In occasione del 70esimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, il blog La Bottega del Barbieri ha voluto ricordare la prima strage coloniale della Francia di De Gaulle.

Di seguito l’intervista all’autore dell’articolo, Karim Metref, torinese di origine algerina.

Ascolta la diretta:

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Di seguito il suo articolo:

L’8 maggio 1945 è festeggiato in tutto il mondo nordoccidentale come la fine della seconda guerra mondiale. La vigilia, sul tardi, era stata diffusa la notizia della resa: l’esercito tedesco aveva ufficialmente depositato le armi, ovunque. Al mattino scoppiarono festeggiamenti in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti. In Unione Sovietica quando giunse la notizia della resa dei tedeschi era già l’8 e quindi i festeggiamenti della fine della guerra furono organizzati il 9 maggio. L’incubo era finito per l’Europa. Ma non era così per tutto il mondo.
L’Algeria era a quell’epoca «territorio francese d’oltremare» come si dice ancora per la Nuova Caledonia o per la Guiana. L’amministrazione coloniale di Algeri prese subito la parte del governo collaborazionista di Vichy. Durante il regno del generale Pétain l’ordine coloniale già molto ingiusto divenne ferreo. Gli indigeni erano merce a disposizione del colono. Ogni voce di dissenso era soffocata. Quando nel 1942 sbarcarono in Algeria gli statunitensi, l’amministrazione coloniale salì subito sul carro del più forte e rientrò sotto l’ala protettrice dell’alleanza. Ma la morsa sulla popolazione indigena non si alleggerì, anzi. Centinaia di migliaia di ragazzi furono mobilitati per andare a combattere. De Gaulle non avendo truppe di «veri» francesi al seguito, si inventò un esercito francese fatto principalmente di marocchini, senegalesi e algerini. Carne da macello da mandare allo sbaraglio senza troppi rimorsi. I suoi pochi soldati bianchi se li teneva stretti per l’ingresso trionfale in ogni città liberata dai combattenti africani.
Oltre alla partenza di molti uomini per il mattatoio europeo, le popolazioni algerine subirono tutto il peso dello sforzo bellico francese. I magri raccolti (ricavati grazie al lavoro di vecchi, donne e bambini) e gli animali erano requisiti e mandati verso la metropoli per sfamare la popolazione stremata dal 4 anni di conflitto ad altissima intensità.
Durante l’incredibile inverno del 1945, l’isolamento a causa delle nevicate eccezionali, la fame, il freddo e le malattie spazzarono via migliaia di persone nelle zone montuose del Nord Est del Paese. Mentre nelle pianure ricche, i coloni europei non sembravano soffrire di nessuna mancanza. Appena tornata la primavera, molte città manifestarono pacificamente contro la fame e le ingiustizie. L’amministrazione coloniale rispose arrestando i leader nazionali. È in queste condizioni che giunse la fine della guerra.
Come tutti i popoli toccati dalla guerra, gli algerini escono a festeggiare l’8 maggio 1945. Gli indigeni ancora più degli europei. I partiti nazionalisti, in modo particolare il Ppa (Partito del popolo algerino) di Messali El Hadj, ne approfitta per ricordare all’amministrazione coloniale le promesse fatte per facilitare l’arruolamento dei giovani algerini nell’esercito: la vittoria alleata avrebbe portato uguaglianza e giustizia per tutti. Bisogna sapere che in Algeria all’epoca c’erano due categorie di persone: i cittadini, tutti quelli di origine europea, e i sudditi, cioè tutti gli indigeni (meno gli algerini di religione ebraica che furono ammessi come cittadini dopo il decreto Crémieux del 1870). Davanti alle leggi, ai tribunali e alle urne elettorali della Repubblica Francese, culla dello Stato di diritto, un cittadino valeva 10 sudditi. Gli striscioni e gli slogan per lo più inneggiano all’uguaglianza e alla giustizia ma in mano ad alcuni gruppi di militanti si leggono anche alcune rivendicazioni di autonomia. A Setif, in testa allo spezzone degli scout algerini svolazza addirittura la bandiera algerina, il simbolo degli indipendentisti. Il commissario della città, un certo Olivieri, figlio di migranti italiani, interviene di persona per confiscare il simbolo. Ma gli scout rifiutano di consegnarlo. Un giovane militante del Ppa, Bouzid Saad, difende la bandiera con il proprio corpo ed è abbattuto a freddo da un poliziotto. Altri spari partono contro la folla che si raduna minacciosa. I manifestanti corrono in tutte le direzioni. In tutta la città scoppiano scontri fra coloni e indigeni, cadono decine di morti da entrambe le parti. La popolazione indigena è più numerosa ma i coloni sono ben armati.
In tutto il dipartimento di Costantina (Nord Est) la notizia dei morti di Setif si sparge come una scia di fuoco e scoppiano scontri in molte città. In modo particolare a Guelma e a Kherata. Nelle campagne molte proprietà di coloni isolati sono prese d’assalto. Le più piccole vengono espugnate ed è un massacro. Le più grosse e quelle che riescono a radunarsi sono assediate ma resistono. Centinaia di morti. La situazione rischia di degenerare in tutto il Paese.
L’11 maggio, De Gaulle chiede l’intervento militare. Gli statunitensi lo appoggiano e offrono i loro mezzi aerei per trasportare truppe provenienti da tutto il nord Africa verso l’est algerino.
Il giorno dopo comincia il massacro vero e proprio. Interi villaggi sono fatti fuori. Esecuzioni sistematiche, bombardamenti con l’artiglieria pesante, due corazzate in stanza nella baia di Bejaia sparano centinaia di missili sui paesi dell’entroterra: è un vero e proprio scempio commesso da un esercito in assetto di guerra contro civili disarmati.
Le stime ufficiali francesi parlano di un migliaio di morti. Un rapporto dei servizi segreti Usa parla di circa 17mila-20mila morti. La versione del movimento nazionalista algerino porterà questo numero a 45.000.
Non si avrà mai una certezza sui numeri di morti. Anche perché se l’amministrazione coloniale ha stabilito un elenco preciso del centinaio di morti europei, non fece nessun censimento degli indigeni sepolti nelle fosse comuni o gettati nei fiumi, nei burroni e nel mare.
Quel che si sa è che quando i combattenti algerini tornano dalla guerra trovano villaggi vuoti e famiglie devastate. Molti di loro salgono in montagna con armi e bagagli e formano i primi nuclei di quello che diventerà, 7 anni dopo, l’Esercito di Liberazione Nazionale.




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