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Le cifre ufficiali sono basse, non più di dieci, ma gli attivisti no border ritengono siano decisamente più alte.\r\nTre settimane fa, poco prima che il governo bielorusso accelerasse la crisi, portando al confine migliaia di persone, è stata trovata un’auto senza targa con a bordo quattro cadaveri. In un fiume, che molti provano ad attraversare, sono affiorati diversi corpi.\r\nSiamo alle porte dell’inverno. I profughi sono giovani ed anziani, tanti sono i bambini e le persone fragili, che hanno intrapreso il viaggio, convinte dalla propaganda che prometteva un passaggio “morbido” all’Europa. Tra questi c’é Taman. Iracheno, nove anni e due protesi al posto delle gambe.\r\nQuesta mattina alla frontiera ci sono stati scontri: la polizia polacca ha usato idranti e lacrimogeni.\r\nUn accampamento improvvisato è sorto in un’area di sosta dei tir in territorio bielorusso.\r\nI compagni attivi nella zona, che hanno aperto un rifugio autogestito, consegnano abiti, scarpe, telefoni, sim card, power banks, nonostante il confine sia pesantemente militarizzato ed il governo polacco abbia interdetto un’area di circa tre chilometri intorno al confine.\r\nNe abbiamo parlato con Cosimo Caridi, giornalista free-lance che è appena tornato dal confine\r\n\r\nAscolta la diretta:\r\n\r\n[audio mp3=\"https://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/11/2021-11-09-bielo-pol-caridi.mp3\"][/audio]","16 Novembre 2021","2021-11-16 13:25:16","http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/11/polonia-bielorussia-200x110.jpg","\u003Cimg width=\"300\" height=\"200\" src=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/11/polonia-bielorussia-300x200.jpg\" class=\"ais-Hit-itemImage\" alt=\"\" decoding=\"async\" loading=\"lazy\" srcset=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/11/polonia-bielorussia-300x200.jpg 300w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/11/polonia-bielorussia-1024x683.jpg 1024w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/11/polonia-bielorussia-768x512.jpg 768w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/11/polonia-bielorussia.jpg 1281w\" sizes=\"auto, (max-width: 300px) 100vw, 300px\" />","Bielorussia/Polonia. 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Il Force commander (che guida le operazioni nel teatro operativo, a bordo della nave ammiraglia) è il contrammiraglio italiano Stefano Costantino.\r\nAspides affianca l’operazione Atalanta, operativa sin dal 2008, che si muove su un’area più vasta che comprende Mar Mediterraneo, Mar Rosso, Golfo di Aden, Mar Arabico, bacino somalo, Canale del Mozambico e Oceano Indiano.\r\nSono due delle 46 missioni militari italiane tra Europa, Asia ed Africa.\r\nNe abbiamo parlato con Dario Antonelli dell’Assemblea Antimilitarista\r\n\r\nStupri di guerra. Con uno sguardo a Israele e Gaza\r\nLo stupro è un’arma di guerra, di tutte le guerre, un modo per umiliare gli uomini del nemico, incapaci di mantenere il controllo delle “proprie” donne. Ma, soprattutto, è l’esplicitazione più cruda della guerra patriarcale contro le donne. Una guerra senza esclusione di colpi. La libertà delle donne è la posta in gioco: ucciderle non basta, vanno annientate, ridotte a nulla. Per terrorizzare tutte le altre, per dire a chiare lettere che questo pianeta non è un luogo dove le donne possano vivere in libertà senza pagarne il prezzo.\r\nLo stupro di guerra, fatto di torture e mutilazioni, spesso si conclude con l’uccisione, delle bambine, delle ragazze, delle donne.\r\nIn guerra il sangue, le lacerazioni, le ferite i corpi distrutti sono esibiti come trofei, mostrati nei video compiaciuti dei carnefici, esibiti sui social.\r\nImmagini che vorremmo cancellare, coprire, non per nascondere la verità ma per sottrarre ai violenti il loro trofeo pubblico. Ma ci tocca guardare perché il nostro sguardo possa spezzare l’omertà che circonda alcune vicende.\r\nIn tempi di “pace armata”, la violenza degli stupri prosegue nelle aule di tribunale, dove le donne che scelgono di denunciare, sono, nei fatti, obbligate a dimostrare, mostrando lividi, ferite, lacerazioni la loro opposizione. Il semplice “no” è considerato sospetto, viene inquisito, mette le vittime sul banco delle imputate.\r\n“Sorella io ti credo.” è uno slogan che riecheggia nelle piazze femministe di ogni dove. Il sostegno concreto, attivo, solidale di donne verso altre donne. Di donne che conoscono, per averlo esperito sulla propria pelle, il sapore agre del sospetto, del chiacchiericcio, della “battutina”. Senza sangue non c’è violenza. O muori come Maria Goretti o, in fondo, te la sei cercata.\r\nIl femminismo è quasi sempre riuscito ad affrontare con lucidità e solidarietà gli stupri di guerra, al di là del proprio posizionamento politico. \r\nDopo il 7 ottobre questo è meno vero.\r\nL’incapacità o, più spesso, la decisione di ignorare o quantomeno minimizzare gli orrori commessi dagli uomini di Hamas che hanno attaccato gli abitanti di alcuni kibbutz e i partecipanti al festival musicale Nova, è sconcertante.\r\nSu testate, pubblicazioni e siti di movimento è partita la gara alla negazione, all’inquisizione, alla pretesa, che in mezzo a cumuli di cadaveri venissero avviate inchieste con autopsie e prove del DNA. Settori di movimento si sono comportati come i tribunali di ogni dove: sotto accusa le donne, le poche sopravvissute, le testimoni stesse. Persino i filmati girati e diffusi dagli stessi aguzzini sono stati ignorati o sottoposti alla lente di ingrandimento alla ricerca del particolare discordante.\r\nIn alcuni casi gli stupri e le violenze sono state descritte come “non sistematiche” e comunque opera di sbandati, non dei miliziani di Hamas. Le solite mele marce.\r\nUn atteggiamento razzista, escludente, che getta un’ombra pesante sulla strada del femminismo alle nostre latitudini.\r\nAbbiamo provato, in punta di piedi, nel rispetto delle donne stuprate, mutilate ed uccise, a parlarvi di questa vicenda. \r\nMa certo non dimentichiamo ne minimizziamo la violenza dell’esercito israeliano verso le donne e le bambine palestinesi. Anche qui, in punta di piedi, nel rispetto di queste vite negate, vi abbiamo parlato delle loro esistenze umiliate ed offese.\r\nPerché nel mondo che vogliamo non c’è spazio per frontiere tra i corpi, tra le persone, tra gente che parla lingue diverse.\r\nPer questo approfondimento abbiamo scelto l’8 marzo: non avremmo potuto fare altrimenti di fronte al sostanziale silenzio dei movimenti transfemministi.\r\nSappiamo già che qualcun* griderà che abbiamo fatto il gioco del governo fascista di Israele. Lo diciamo chiaro: chi nega, chi nasconde chi minimizza le brutali violenze di genere del 7 ottobre fa davvero il gioco di Netanyahu e della sua banda di predoni confessionali. La gran parte delle persone massacrate il 7 ottobre viveva in kibbutz di estrema sinistra, dove la solidarietà con i vicini oltre il confine blindato era normale. Le ragazze e i ragazzi che ballavano al festival Nova, con i loro corpi e identità libere facevano parte di quei settori di società israeliana sempre più nel mirino della destra religiosa e colonialista.\r\nI sopravvissuti hanno detto a chiare lettere che né loro né gli amici e parenti uccisi da Hamas avrebbero voluto la rappresaglia scatenata dal governo Netanyahu.\r\n\r\nGli infiniti orrori della guerra a Gaza non possono in alcun modo giustificare il silenzio o il negazionismo sugli stupri del 7 ottobre. \r\nLa violenza patriarcale è fatta anche di confini, guerre, nazionalismi giocati sulla pelle delle donne. Ed ai quali non intendiamo piegarci. Né qui, né altrove.\r\nAnarres ne ha parlato con l’aiuto di Lorenzo, che ha tradotto i documenti e letto le testimonianze disponibili\r\n\r\nUna Barriera contro i militari\r\nPer la prima volta dopo più un mese i soldati dell'operazione \"Strade sicure\" non hanno bivaccato nello spiazzo tra corso Palermo e via Sesia. All'arrivo degli antimilitaristi si sono allontanati per l'intero pomeriggio.\r\nLa piazza smilitarizzata ha mutato subito aspetto: si sono avvicinate diverse persone che abitano il quartiere e scelgono la solidarietà ed il mutuo appoggio.\r\nUna ragazza ci avvicina e ci dice, guardando la fermata dell'autobus: \"qui servirebbero più mezzi, invece attese infinite e sovraffollamento. E pretendono che paghiamo il biglietto.\" Il discorso scivola sui costi dell'avamposto militare di fronte ai continui tagli ai servizi essenziali.\r\n\r\nProssime iniziative:\r\n\r\nSabato 16 marzo\r\nCorteo No CPR\r\nore 14,30\r\npiazza Castello\r\n\r\nVenerdì 22 marzo\r\nOre 21 corso Palermo 46\r\nAnarchia e decolonialità\r\nVerso un’idea non nazionalista della decolonizzazione, per un universale plurale, che emerge nella concretezza dei percorsi di lotta.\r\nIl concetto di decolonialità è molto citato negli ultimi anni ma non sempre compreso. Manca soprattutto un’elaborazione di questa idea che la separi da nazionalismi, comunitarismi e approcci basati su una prospettiva unica (piuttosto che su intersezioni) che rischiano di farla diventare una concezione escludente quando non lo è. È importante ricordare che, come elaborata originariamente dal collettivo Modernità-Colonialità-Decolonialità (MCD) e poi arricchita dai contributi del femminismo indigeno, degli studi sul pluriverso e delle epistemologie del Sud per non citare che alcuni dei principali ambiti di discussione, la decolonialità mira a superare i limiti di precedenti approcci.\r\nSi tratta in particolare del culturalismo dei Postcolonial Studies, che si sono spesso limitati a critiche della colonialità che restavano limitate a un’analisi del discorso e confinate in ambiti accademici, e dell’economicismo di teorie quali lo sviluppo ineguale o il sistema mondo, incapaci di includere quello che gli approcci decoloniali chiamano la ‘decolonizzazione epistemica’. In questo senso, i punti qualificanti della decolonialità sono la necessità di non limitarsi alla pura teoria per connettersi alle lotte e situazioni reali, di riscoprire modi di pensare al di fuori delle tradizioni intellettuali europee e di costruire ponti di solidarietà militanti attraverso diverse culture e assi di intervento.\r\nSulla base di questo discorso introduttivo, e di alcuni casi empirici sudamericani di interazione tra gruppi anarchici e comunità indigene e afrodiscendenti, si discuteranno le basi di un progetto anarchico di decolonialità, basato sul fatto che la tradizione anarchica e molte delle comunità sopracitate condividono punti chiave quali la prassi organizzativa orizzontale, l’azione diretta e l’idea di territorio come relazione sociale piuttosto che come area delimitata da confini “sovrani”. 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Tra queste spicca la missione Aspides, missione europea cui partecipano Italia, Grecia e Francia, approvata dal Consiglio dei ministri dopo che era divenuta operativa da tempo nel Mar Rosso.\r\nLa missione ha il compito di tutelare gli interessi del trasporto commerciale italiano nell’area. Il Comando operativo dell'operazione ha sede a Larissa in Grecia e il comandante è il commodoro greco Vasilios Griparis. Il Force commander (che guida le operazioni nel teatro operativo, a bordo della nave ammiraglia) è il contrammiraglio italiano Stefano Costantino.\r\nAspides affianca l’operazione Atalanta, operativa sin dal 2008, che si muove su un’area più vasta che comprende Mar Mediterraneo, Mar Rosso, Golfo di Aden, Mar Arabico, bacino somalo, Canale del Mozambico e Oceano Indiano.\r\nSono due delle 46 missioni militari italiane tra Europa, Asia ed Africa.\r\nNe abbiamo parlato con Dario Antonelli dell’Assemblea Antimilitarista\r\n\r\nStupri di guerra. Con uno sguardo a Israele e Gaza\r\nLo stupro è un’arma di guerra, di tutte le guerre, un modo per umiliare gli uomini del nemico, incapaci di mantenere il controllo delle “proprie” donne. Ma, soprattutto, è l’esplicitazione più cruda della guerra patriarcale contro le donne. Una guerra senza esclusione di colpi. La libertà delle donne è la posta in gioco: ucciderle non basta, vanno annientate, ridotte a nulla. Per terrorizzare tutte le altre, per dire a chiare lettere che questo pianeta non è un luogo dove le donne possano vivere in libertà senza pagarne il prezzo.\r\nLo stupro di guerra, fatto di torture e mutilazioni, spesso si conclude con l’uccisione, delle bambine, delle ragazze, delle donne.\r\nIn guerra il sangue, le lacerazioni, le ferite i corpi distrutti sono esibiti come trofei, mostrati nei video compiaciuti dei carnefici, esibiti sui social.\r\nImmagini che vorremmo cancellare, coprire, non per nascondere la verità ma per sottrarre ai violenti il loro trofeo pubblico. Ma ci tocca guardare perché il nostro sguardo possa spezzare l’omertà che circonda alcune vicende.\r\nIn tempi di “pace armata”, la violenza degli stupri prosegue nelle aule di tribunale, dove le donne che scelgono di denunciare, sono, nei fatti, obbligate a dimostrare, mostrando lividi, ferite, lacerazioni la loro opposizione. Il semplice “no” è considerato sospetto, viene inquisito, mette le vittime sul banco delle imputate.\r\n“Sorella io ti credo.” è uno slogan che riecheggia nelle piazze femministe di ogni dove. Il sostegno concreto, attivo, solidale di donne verso altre donne. Di donne che conoscono, per averlo esperito sulla propria pelle, il sapore agre del sospetto, del chiacchiericcio, della “battutina”. Senza sangue non c’è violenza. O muori come Maria Goretti o, in fondo, te la sei cercata.\r\nIl femminismo è quasi sempre riuscito ad affrontare con lucidità e solidarietà gli stupri di guerra, al di là del proprio posizionamento politico. \r\nDopo il 7 ottobre questo è meno vero.\r\nL’incapacità o, più spesso, la decisione di ignorare o quantomeno minimizzare gli orrori commessi dagli uomini di Hamas che hanno attaccato gli abitanti di alcuni kibbutz e i partecipanti al festival musicale Nova, è sconcertante.\r\nSu testate, pubblicazioni e siti di movimento è partita la gara alla negazione, all’inquisizione, alla pretesa, che in mezzo a cumuli di cadaveri venissero avviate inchieste con autopsie e prove del DNA. Settori di movimento si sono comportati come i tribunali di ogni dove: sotto accusa le donne, le poche sopravvissute, le testimoni stesse. Persino i filmati girati e diffusi dagli stessi aguzzini sono stati ignorati o sottoposti alla lente di ingrandimento alla ricerca del particolare discordante.\r\nIn alcuni casi gli stupri e le violenze sono state descritte come “non sistematiche” e comunque opera di sbandati, non dei miliziani di Hamas. Le solite mele marce.\r\nUn atteggiamento razzista, escludente, che getta un’ombra pesante sulla strada del femminismo alle nostre latitudini.\r\nAbbiamo provato, in punta di piedi, nel rispetto delle donne stuprate, mutilate ed uccise, a parlarvi di questa vicenda. \r\nMa certo non dimentichiamo ne minimizziamo la violenza dell’esercito israeliano verso le donne e le bambine palestinesi. Anche qui, in punta di piedi, nel rispetto di queste vite negate, vi abbiamo parlato delle loro esistenze umiliate ed offese.\r\nPerché nel mondo che vogliamo non c’è spazio per frontiere tra i corpi, tra le persone, tra gente che parla lingue diverse.\r\nPer questo approfondimento abbiamo scelto l’8 marzo: non avremmo potuto fare altrimenti di fronte al sostanziale silenzio dei movimenti transfemministi.\r\nSappiamo già che qualcun* griderà che abbiamo fatto il gioco del governo fascista di Israele. Lo diciamo chiaro: chi nega, chi nasconde chi minimizza le brutali violenze di genere del 7 ottobre fa davvero il gioco di Netanyahu e della sua banda di predoni confessionali. La gran parte delle persone massacrate il 7 ottobre viveva in kibbutz di estrema sinistra, dove la solidarietà con i vicini oltre il \u003Cmark>confine\u003C/mark> \u003Cmark>blindato\u003C/mark> era normale. Le ragazze e i ragazzi che ballavano al festival Nova, con i loro corpi e identità libere facevano parte di quei settori di società israeliana sempre più nel mirino della destra religiosa e colonialista.\r\nI sopravvissuti hanno detto a chiare lettere che né loro né gli amici e parenti uccisi da Hamas avrebbero voluto la rappresaglia scatenata dal governo Netanyahu.\r\n\r\nGli infiniti orrori della guerra a Gaza non possono in alcun modo giustificare il silenzio o il negazionismo sugli stupri del 7 ottobre. \r\nLa violenza patriarcale è fatta anche di confini, guerre, nazionalismi giocati sulla pelle delle donne. Ed ai quali non intendiamo piegarci. Né qui, né altrove.\r\nAnarres ne ha parlato con l’aiuto di Lorenzo, che ha tradotto i documenti e letto le testimonianze disponibili\r\n\r\nUna Barriera contro i militari\r\nPer la prima volta dopo più un mese i soldati dell'operazione \"Strade sicure\" non hanno bivaccato nello spiazzo tra corso Palermo e via Sesia. All'arrivo degli antimilitaristi si sono allontanati per l'intero pomeriggio.\r\nLa piazza smilitarizzata ha mutato subito aspetto: si sono avvicinate diverse persone che abitano il quartiere e scelgono la solidarietà ed il mutuo appoggio.\r\nUna ragazza ci avvicina e ci dice, guardando la fermata dell'autobus: \"qui servirebbero più mezzi, invece attese infinite e sovraffollamento. E pretendono che paghiamo il biglietto.\" Il discorso scivola sui costi dell'avamposto militare di fronte ai continui tagli ai servizi essenziali.\r\n\r\nProssime iniziative:\r\n\r\nSabato 16 marzo\r\nCorteo No CPR\r\nore 14,30\r\npiazza Castello\r\n\r\nVenerdì 22 marzo\r\nOre 21 corso Palermo 46\r\nAnarchia e decolonialità\r\nVerso un’idea non nazionalista della decolonizzazione, per un universale plurale, che emerge nella concretezza dei percorsi di lotta.\r\nIl concetto di decolonialità è molto citato negli ultimi anni ma non sempre compreso. Manca soprattutto un’elaborazione di questa idea che la separi da nazionalismi, comunitarismi e approcci basati su una prospettiva unica (piuttosto che su intersezioni) che rischiano di farla diventare una concezione escludente quando non lo è. È importante ricordare che, come elaborata originariamente dal collettivo Modernità-Colonialità-Decolonialità (MCD) e poi arricchita dai contributi del femminismo indigeno, degli studi sul pluriverso e delle epistemologie del Sud per non citare che alcuni dei principali ambiti di discussione, la decolonialità mira a superare i limiti di precedenti approcci.\r\nSi tratta in particolare del culturalismo dei Postcolonial Studies, che si sono spesso limitati a critiche della colonialità che restavano limitate a un’analisi del discorso e confinate in ambiti accademici, e dell’economicismo di teorie quali lo sviluppo ineguale o il sistema mondo, incapaci di includere quello che gli approcci decoloniali chiamano la ‘decolonizzazione epistemica’. In questo senso, i punti qualificanti della decolonialità sono la necessità di non limitarsi alla pura teoria per connettersi alle lotte e situazioni reali, di riscoprire modi di pensare al di fuori delle tradizioni intellettuali europee e di costruire ponti di solidarietà militanti attraverso diverse culture e assi di intervento.\r\nSulla base di questo discorso introduttivo, e di alcuni casi empirici sudamericani di interazione tra gruppi anarchici e comunità indigene e afrodiscendenti, si discuteranno le basi di un progetto anarchico di decolonialità, basato sul fatto che la tradizione anarchica e molte delle comunità sopracitate condividono punti chiave quali la prassi organizzativa orizzontale, l’azione diretta e l’idea di territorio come relazione sociale piuttosto che come area delimitata da confini “sovrani”. Esse condividono inoltre critiche delle principali pratiche autoritarie che hanno caratterizzato la Sinistra europea ed eurocentrica, quali il concetto di avanguardia politica, quello di intellettuale organico (di solito maschio e bianco) chiamato a “guidare” le lotte, l’idea della rivoluzione come mera presa del potere politico e quella della decolonizzazione o “liberazione nazionale” come mera costruzione di un nuovo Stato.\r\nIn una singola definizione, anarchismo e “lotta afro-indigena” condividono il principio della coerenza tra la teoria e la prassi, che dovrebbe ispirare il più vasto campo della decolonialità.\r\nInterverrà Federico Ferretti, geografo, docente all'università di Bologna.\r\n\r\nSabato 23 marzo\r\nore 15 giardinetti tra corso Giulio Cesare e via Montanaro\r\nAssemblea\r\nCase senza persone, persone senza casa\r\nCon Filippo Borreani, sociologo e con Prendocasa\r\npoi musica, poesia, socialità\r\n(organizza oltredora antifascista)\r\n\r\nVenerdì 12 aprile\r\nEmma Goldman\r\nLa donna più pericolosa d'America\r\nOre 21 corso Palermo 46\r\nNe parliamo con Selva Varengo curatrice della nuova edizione di \"Vivendo la mia vita\", l'autobiografia che Emma Goldman scrisse nel 1934.\r\n\r\nOgni martedì fai un salto da\r\n(A)distro – libri, giornali, documenti e… tanto altro\r\nSeriRiot – serigrafia autoprodotta benefit lotte\r\nVieni a spulciare tra i libri e le riviste, le magliette e i volantini!\r\nSostieni l’autoproduzione e l’informazione libera dallo stato e dal mercato!\r\nInformati su lotte e appuntamenti!\r\ndalle 18 alle 20 in corso Palermo 46\r\n\r\nContatti:\r\n\r\nFederazione Anarchica Torinese\r\ncorso Palermo 46\r\nRiunioni – aperte agli interessati - ogni martedì dalle 20\r\nContatti:\r\nfai_torino@autistici.org\r\n@senzafrontiere.to/\r\nhttps://t.me/SenzaFrontiere\r\n\r\nIscriviti alla nostra newsletter, mandando un messaggio alla pagina FB oppure una mail\r\n\r\nscrivi a: anarres@inventati.org\r\n\r\nwww.anarresinfo.org",[226],{"field":126,"matched_tokens":227,"snippet":223,"value":224},[72,73],1157451471441100800,{"best_field_score":230,"best_field_weight":134,"fields_matched":14,"num_tokens_dropped":46,"score":231,"tokens_matched":92,"typo_prefix_score":46},"2211897868288","1157451471441100913",6637,{"collection_name":216,"first_q":33,"per_page":192,"q":33},["Reactive",235],{},["Set"],["ShallowReactive",238],{"$fbAxCaxovUWuusFtLxrIZ3vlAlwSSEnhLC_bckcH72gg":-1,"$fw6RggshUchUMgBODRoIignZQ1L2IZDYLQ0evDorcitQ":-1},true,"/search?query=confine+blindato"]