","2017: Fuga dalla Corte penale internazionale","post",1477730754,[60,61,62,63],"http://radioblackout.org/tag/burundi-gambia-sudafrica/","http://radioblackout.org/tag/colonialismo-e-neocolonialismo/","http://radioblackout.org/tag/corte-penale-internazionale/","http://radioblackout.org/tag/despoti-africani/",[25,33,27,23],{"post_content":66,"tags":72},{"matched_tokens":67,"snippet":70,"value":71},[68,69],"despoti","africani","a giudicare e sanzionare soltanto \u003Cmark>despoti\u003C/mark> \u003Cmark>africani\u003C/mark>, perché questi ultimi, dopo aver","Dopo il Burundi e il Sudafrica, anche il Gambia ha annunciato di voler uscire dalla Corte penale internazionale (Cpi), che è nata nel 2002, dopo essere stata prevista dallo Statuto di Roma ratificato da 123 Paesi, ha visto incriminare solo politici \u003Cmark>africani\u003C/mark>. Il ministro gambiano dell’Informazione Sherif Bojang ha quindi avuto buon gioco ad accusare la Corte di aver ignorato i crimini di guerra occidentali.\r\n\r\n \r\n\r\nOccasione dunque per un'emancipazione tardiva dalle impostazioni dei codici occidentali, o scappatoia per evitare di essere incriminati internazionalmente? Velleità di licenza di uccidere e restare impuniti, oppure affrancamento dell'Africa per via giuridica, chiamandosi fuori dalle discriminazioni coloniali, che non colpiscono il reo confesso Blair ma si accaniscono su altrettanto sanguinari autocrati africani?\r\n\r\nProbabilmente entrambe le cose, ovvero: forse si dà questa possibilità di rifiutare l'imposizione di una Corte penale postcoloniale pronta a giudicare e sanzionare soltanto \u003Cmark>despoti\u003C/mark> \u003Cmark>africani\u003C/mark>, perché questi ultimi, dopo aver affamato le loro popolazioni, pretendono anche l'impunità e ulteriori mandati extracostituzionali.\r\n\r\n \r\n\r\nComunque lo spirito del tempo conduce a questi rifiuti ormai estesi di sottostare a regole create apposta per mantenere sotto il giogo europeo i paesi \u003Cmark>africani\u003C/mark>; e contemporaneamente queste manovre servono ai regimi sanguinari per perpetuarsi: è il caso del Burundi, come del Gambia... un po' diverso quello sudafricano, ma sempre ispirato dalla difesa della leadership, a tutti i costi. Ufficialmente il governo gambiano accusa il tribunale di non essere equo e di perseguire solo i capi di Stato \u003Cmark>africani\u003C/mark>. In realtà Yahya Jammeh (al potere dal 1996, guida uno dei regimi più oppressivi al mondo, con arresti ed esecuzioni sommarie all’ordine del giorno, che si sono moltiplicate in vista del voto di dicembre, dove si è candidato per un quinto mandato), come anche Pierre Nkurunziza, teme l’apertura di indagini a suo carico con il rischio di essere incriminato per reati gravissimi. La sua condotta potrebbe infatti giustificare l’accusa di violazione dei diritti umani e crimini contro l’umanità. Se il Gambia e il Burundi sono due piccoli Stati, il Sudafrica è invece una nazione di grande rilevanza nel continente. In questo caso, i politici sudafricani non corrono il rischio di essere incriminati, ma la leadership di Pretoria non vuole essere costretta dalla Cpi a perseguire i propri alleati (l’anno scorso, lungi dal far scattare le manette, Zuma ha accolto a braccia aperte a Pretoria il presidente sudanese Omar Bashir, su cui pende dal 2009 un mandato di cattura per crimini contro l’umanità). Desmond Tutu ha bollato queste manovre come pretesa di avere la licenza di uccidere... Gli accordi prevedono un anno dalla dichiarazione di volontà di uscita dalla Corte prima che questa sia esecutiva: il 2017 potrebbe prospettarsi come l'anno della dissoluzione della Corte Penale Internazionale come organismo neocoloniale?\r\n\r\n \r\n\r\nAbbiamo interpellato Marta Mosca, anropologa esperta della regione dei Grandi Lghi per capirne qualcosa in più.\r\n\r\nburundi-e-cpi",[73,75,77,79],{"matched_tokens":74,"snippet":25},[],{"matched_tokens":76,"snippet":33},[],{"matched_tokens":78,"snippet":27},[],{"matched_tokens":80,"snippet":81},[68,69],"\u003Cmark>despoti\u003C/mark> \u003Cmark>africani\u003C/mark>",[83,89],{"field":34,"indices":84,"matched_tokens":86,"snippets":88},[85],3,[87],[68,69],[81],{"field":90,"matched_tokens":91,"snippet":70,"value":71},"post_content",[68,69],1157451471441625000,{"best_field_score":94,"best_field_weight":95,"fields_matched":38,"num_tokens_dropped":46,"score":96,"tokens_matched":38,"typo_prefix_score":46},"2211897868544",13,"1157451471441625194",{"document":98,"highlight":120,"highlights":125,"text_match":128,"text_match_info":129},{"cat_link":99,"category":100,"comment_count":46,"id":101,"is_sticky":46,"permalink":102,"post_author":49,"post_content":103,"post_date":104,"post_excerpt":52,"post_id":101,"post_modified":105,"post_thumbnail":52,"post_thumbnail_html":52,"post_title":106,"post_type":57,"sort_by_date":107,"tag_links":108,"tags":117},[43],[45],"44855","http://radioblackout.org/2017/12/leni-gentiloni-la-filiera-africana/","Sul Sole 24 Ore Alberto Negri ha analizzato la trama di interessi targati Eni, sottesa al recente viaggio in Africa del presidente del consiglio dei ministri Gentiloni. L’importanza della filiera Africana emerge in modo molto chiaro.\r\n\r\nCi raccontato degli enormi interessi italiani in Africa, della difficoltà di Gentiloni a penetrare nella Francafrique, degli enormi investimenti cinesi nell’area.\r\nUn quadro geopolitico da cui emerge la spietata guerra di interessi intorno all’Africa, terreno di conquista e di rapina, ben dopo la fine dell’era coloniale.\r\n\r\nAscolta la diretta:\r\n\r\n \r\n\r\n2017 12 12 negri afritalia\r\n\r\n \r\n\r\nDi seguito il pezzo uscito sul Sole:\r\n\r\n“A essere un po’ maliziosi ma anche realisti si potrebbe affermare che il viaggio del primo ministro Paolo Gentiloni in Africa è segnato da una diplomazia “a tutto gas”, in gran parte con il marchio Eni. Non c’è niente di esotico in questa missione.\r\n\r\nIn Tunisia, partner essenziale sulla sponda Sud dei migranti, la presenza dell’Eni risale agli anni Sessanta quando venne scoperto il giacimento di El Borma, uno dei principali del Sahara.\r\n\r\nMa la Tunisia è anche un anello del cordone ombelicale che lega l’Italia al Nordafrica, qui passa infatti il gasdotto Transmed che trasporta il gas dell’Algeria, secondo fornitore italiano dopo la Russia. In Angola, in seguito all’incontro tra Gentiloni e il presidente Joao Lourenco, sono stati annunciati accordi che porteranno l’Eni ad avere quasi il 50% dei diritti su Cabinda North, una sorta di Eldorado energetico angolano.\r\n\r\nAnche le altre tappe del viaggio africano sono all’insegna di gas e petrolio. Eni in Costa d’Avorio ha acquisito il 30% del blocco esplorativo offshore CI-100. Persino il Ghana sotto questo profilo è assai significativo. In anticipo sui tempi previsti, l’Eni qui ha messo in produzione l’Offshore Cape Three Points Block (Octp). In questi progetti, considerati prioritari dalla stessa Banca Mondiale, ci sono giacimenti per 41 miliardi di metri cubi di gas e 500 milioni di barili di petrolio.\r\n\r\nEcco perché Gentiloni è diventato “l’Africano”. Ha quindi snocciolato cifre da record per gli investimenti italiani sul continente: 12 miliardi nel 2016, al primo posto in Europa, al terzo nel mondo. Ovviamente la parte del leone è dell’Eni, presente con i suoi vertici a ogni tappa del viaggio.\r\n\r\nDel resto l’Eni è un attore geopolitico per eccellenza, l’unico che abbiamo di questa portata. «È il motore degli interessi strategici dell’Italia nel mondo», ha detto qualche mese fa Gentiloni, primo capo di un governo italiano a entrare nel quartiere generale di San Donato.\r\n\r\nL’Eni è un protagonista per storia e vocazione del suo fondatore, il comandante partigiano Enrico Mattei: sua la battaglia per non liquidare l’Agip nelle mani degli americani, quella condotta contro le Sette Sorelle per entrare sul mercato iraniano sbarrato dalle multinazionali, sua l’avventura mediterranea, con la decisa apertura ai Paesi africani e del Medio Oriente con i quali solidarizzava per il passato coloniale, al punto da finanziare la guerriglia algerina anti-francese. Senza dimenticare i rapporti con Mosca, quando Mattei, in piena guerra fredda, importava il petrolio russo a prezzi da saldo.\r\n\r\nForse non è un caso che nel 2011, all’inizio delle guerra contro Gheddafi, i terminali dell’Eni fossero inseriti dai nostri alleati Nato tra gli obiettivi da bombardare. Pensare male è peccato ma spesso ci si azzecca, diceva Andreotti. Ma a sei anni dalla fine del dittatore libico, il maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo, la cui sconfitta con le sue conseguenze è stata la più devastante débâcle italiana dal dopoguerra, l’Eni rimane l’unica multinazionale attiva sia a Ovest che a Est di una Libia spaccata tra Tripolitania e Cirenaica.\r\n\r\nEcco perché c’è una “filiera africana” essenziale ai nostri rifornimenti ma anche per lo sviluppo dei Paesi africani. Molte volte si banalizza il motto «aiutiamoli a casa loro» quando si tratta di immigrazione, ma se guardiamo alle cifre le speranze africane sono ancora affidate alle risorse energetiche e alle materie prime, viste però con un’ottica diversa da un presente dove portano ricchezza (e corruzione) solo a una cerchia ristretta delle élite africane e alle multinazionali.\r\n\r\nLa fiche che l’Unione europea vorrebbe moltiplicare al tavolo verde degli investimenti si gioca sulle opportunità di attirare capitali privati prima di tutto nelle vene profonde dell’Africa da dove escono gas, petrolio, minerali. La relazione tra l’enorme potenziale in risorse naturali, la crescita del Pil e lo sviluppo sociale non è lineare: anzi in Africa a volte più la nazione è ricca e più i cittadini sono poveri.\r\n\r\nLe materie prime rappresentano il 70% delle esportazioni totali dell’Africa. Ma è solo cambiando registro rispetto al passato che possono diventare il volano dello sviluppo, altrimenti gli africani cercheranno sempre una via di fuga da guerre, despoti e cleptocrazie che costringono la gente a vivere con meno di un dollaro al giorno.\"","12 Dicembre 2017","2023-04-19 15:06:01","L’Eni, Gentiloni, la filiera africana",1513101490,[109,110,111,112,113,114,115,116],"http://radioblackout.org/tag/africa/","http://radioblackout.org/tag/angola/","http://radioblackout.org/tag/cina/","http://radioblackout.org/tag/descalzi/","http://radioblackout.org/tag/eni/","http://radioblackout.org/tag/francafrique/","http://radioblackout.org/tag/interessi-italiani-in-africa/","http://radioblackout.org/tag/investimenti-cinesi-in-africa/",[17,15,118,19,119,21,29,31],"cina","ENI",{"post_content":121},{"matched_tokens":122,"snippet":123,"value":124},[69,68],"volano dello sviluppo, altrimenti gli \u003Cmark>africani\u003C/mark> cercheranno sempre una via di fuga da guerre, \u003Cmark>despoti\u003C/mark> e cleptocrazie che costringono la","Sul Sole 24 Ore Alberto Negri ha analizzato la trama di interessi targati Eni, sottesa al recente viaggio in Africa del presidente del consiglio dei ministri Gentiloni. L’importanza della filiera Africana emerge in modo molto chiaro.\r\n\r\nCi raccontato degli enormi interessi italiani in Africa, della difficoltà di Gentiloni a penetrare nella Francafrique, degli enormi investimenti cinesi nell’area.\r\nUn quadro geopolitico da cui emerge la spietata guerra di interessi intorno all’Africa, terreno di conquista e di rapina, ben dopo la fine dell’era coloniale.\r\n\r\nAscolta la diretta:\r\n\r\n \r\n\r\n2017 12 12 negri afritalia\r\n\r\n \r\n\r\nDi seguito il pezzo uscito sul Sole:\r\n\r\n“A essere un po’ maliziosi ma anche realisti si potrebbe affermare che il viaggio del primo ministro Paolo Gentiloni in Africa è segnato da una diplomazia “a tutto gas”, in gran parte con il marchio Eni. Non c’è niente di esotico in questa missione.\r\n\r\nIn Tunisia, partner essenziale sulla sponda Sud dei migranti, la presenza dell’Eni risale agli anni Sessanta quando venne scoperto il giacimento di El Borma, uno dei principali del Sahara.\r\n\r\nMa la Tunisia è anche un anello del cordone ombelicale che lega l’Italia al Nordafrica, qui passa infatti il gasdotto Transmed che trasporta il gas dell’Algeria, secondo fornitore italiano dopo la Russia. In Angola, in seguito all’incontro tra Gentiloni e il presidente Joao Lourenco, sono stati annunciati accordi che porteranno l’Eni ad avere quasi il 50% dei diritti su Cabinda North, una sorta di Eldorado energetico angolano.\r\n\r\nAnche le altre tappe del viaggio africano sono all’insegna di gas e petrolio. Eni in Costa d’Avorio ha acquisito il 30% del blocco esplorativo offshore CI-100. Persino il Ghana sotto questo profilo è assai significativo. In anticipo sui tempi previsti, l’Eni qui ha messo in produzione l’Offshore Cape Three Points Block (Octp). In questi progetti, considerati prioritari dalla stessa Banca Mondiale, ci sono giacimenti per 41 miliardi di metri cubi di gas e 500 milioni di barili di petrolio.\r\n\r\nEcco perché Gentiloni è diventato “l’Africano”. Ha quindi snocciolato cifre da record per gli investimenti italiani sul continente: 12 miliardi nel 2016, al primo posto in Europa, al terzo nel mondo. Ovviamente la parte del leone è dell’Eni, presente con i suoi vertici a ogni tappa del viaggio.\r\n\r\nDel resto l’Eni è un attore geopolitico per eccellenza, l’unico che abbiamo di questa portata. «È il motore degli interessi strategici dell’Italia nel mondo», ha detto qualche mese fa Gentiloni, primo capo di un governo italiano a entrare nel quartiere generale di San Donato.\r\n\r\nL’Eni è un protagonista per storia e vocazione del suo fondatore, il comandante partigiano Enrico Mattei: sua la battaglia per non liquidare l’Agip nelle mani degli americani, quella condotta contro le Sette Sorelle per entrare sul mercato iraniano sbarrato dalle multinazionali, sua l’avventura mediterranea, con la decisa apertura ai Paesi \u003Cmark>africani\u003C/mark> e del Medio Oriente con i quali solidarizzava per il passato coloniale, al punto da finanziare la guerriglia algerina anti-francese. Senza dimenticare i rapporti con Mosca, quando Mattei, in piena guerra fredda, importava il petrolio russo a prezzi da saldo.\r\n\r\nForse non è un caso che nel 2011, all’inizio delle guerra contro Gheddafi, i terminali dell’Eni fossero inseriti dai nostri alleati Nato tra gli obiettivi da bombardare. Pensare male è peccato ma spesso ci si azzecca, diceva Andreotti. Ma a sei anni dalla fine del dittatore libico, il maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo, la cui sconfitta con le sue conseguenze è stata la più devastante débâcle italiana dal dopoguerra, l’Eni rimane l’unica multinazionale attiva sia a Ovest che a Est di una Libia spaccata tra Tripolitania e Cirenaica.\r\n\r\nEcco perché c’è una “filiera africana” essenziale ai nostri rifornimenti ma anche per lo sviluppo dei Paesi \u003Cmark>africani\u003C/mark>. Molte volte si banalizza il motto «aiutiamoli a casa loro» quando si tratta di immigrazione, ma se guardiamo alle cifre le speranze africane sono ancora affidate alle risorse energetiche e alle materie prime, viste però con un’ottica diversa da un presente dove portano ricchezza (e corruzione) solo a una cerchia ristretta delle élite africane e alle multinazionali.\r\n\r\nLa fiche che l’Unione europea vorrebbe moltiplicare al tavolo verde degli investimenti si gioca sulle opportunità di attirare capitali privati prima di tutto nelle vene profonde dell’Africa da dove escono gas, petrolio, minerali. La relazione tra l’enorme potenziale in risorse naturali, la crescita del Pil e lo sviluppo sociale non è lineare: anzi in Africa a volte più la nazione è ricca e più i cittadini sono poveri.\r\n\r\nLe materie prime rappresentano il 70% delle esportazioni totali dell’Africa. Ma è solo cambiando registro rispetto al passato che possono diventare il volano dello sviluppo, altrimenti gli \u003Cmark>africani\u003C/mark> cercheranno sempre una via di fuga da guerre, \u003Cmark>despoti\u003C/mark> e cleptocrazie che costringono la gente a vivere con meno di un dollaro al giorno.\"",[126],{"field":90,"matched_tokens":127,"snippet":123,"value":124},[69,68],1157451470367359000,{"best_field_score":130,"best_field_weight":131,"fields_matched":14,"num_tokens_dropped":46,"score":132,"tokens_matched":38,"typo_prefix_score":46},"2211897344000",14,"1157451470367359089",6646,{"collection_name":57,"first_q":23,"per_page":135,"q":23},6,{"facet_counts":137,"found":14,"hits":153,"out_of":184,"page":14,"request_params":185,"search_cutoff":35,"search_time_ms":186},[138,144],{"counts":139,"field_name":142,"sampled":35,"stats":143},[140],{"count":14,"highlighted":141,"value":141},"anarres","podcastfilter",{"total_values":14},{"counts":145,"field_name":34,"sampled":35,"stats":152},[146,148,150],{"count":14,"highlighted":147,"value":147},"torino",{"count":14,"highlighted":149,"value":149},"forconi",{"count":14,"highlighted":151,"value":151},"9 dicembre",{"total_values":85},[154],{"document":155,"highlight":171,"highlights":176,"text_match":179,"text_match_info":180},{"comment_count":46,"id":156,"is_sticky":46,"permalink":157,"podcastfilter":158,"post_author":141,"post_content":159,"post_date":160,"post_excerpt":52,"post_id":156,"post_modified":161,"post_thumbnail":162,"post_title":163,"post_type":164,"sort_by_date":165,"tag_links":166,"tags":170},"20099","http://radioblackout.org/podcast/forconi-a-torino-i-figli-del-deserto-2/",[141],"Decodificare quanto è accaduto a Torino nell’ultima settimana non è facile. Specie se lo si fa con lo sguardo interessato di chi sceglie un punto di vista di classe, di chi ha l’attitudine alla partecipazione diretta, di chi mira alla costruzione di esperienze di autogoverno territoriale fuori tutela statale, definendo uno spazio e un tempo capaci di attraversare l’immaginario sociale, facendosi pratica concreta.\r\n\r\nAnarres ne ha discusso con Pietro e con Stefano, uno di Genova, l'altro di Torino per cercare di capire quello che stava succedendo nelle piazze ed il dibattito che ne era scaturito in città, tra fascinazioni e ripulse.\r\nNe è scaturito un dibatto intenso, sovente intervallato dagli sms dei nostri ascoltatori.\r\nVe lo proponiamo nella sua interezza, auspicando che possa innervare un ulteriore riflessione.\r\nDi seguito anche una nostra valutazione.\r\nBuon ascolto e buona lettura.\r\n\r\nAscolta la diretta con Pietro:\r\n\r\n2013 12 13 pietro 9 dic\r\n\r\ne i commenti arrivati:\r\n\r\n2013 12 13 pietro 9 dic commenti\r\n\r\nAscolta la lunga chiacchierata con Stefano e i commenti arrivati.\r\nPrima parte:\r\n\r\n2013 12 13 stafano parte prima\r\n\r\nSeconda parte:\r\n\r\n2013 12 13 stefano parte seconda\r\n\r\nNella sinistra civilizzata e di governo c’è da decenni un netto disprezzo per l’Italia a cavallo tra Drive in e il presidente operaio e puttaniere. L’Italia che si è affidata per vent’anni ad un partito capace di attuare politiche ultraliberiste, garantendo altresì la sopravvivenza di figure sociali che altrove la globalizzazione ha spazzato via: commercianti, artigiani, padroncini, agricoltori su scala familiare o con pochi dipendenti.\r\n\r\nLa settimana precedente quella del 9 dicembre, il governo, intuendo la miscela esplosiva che si stava preparando, ha concesso tutto quello che volevano alle organizzazioni degli autotrasportatori, mentre la moderatissima Coldiretti ha organizzato la manifestazione al Brennero, dove venivano bloccati e perquisiti i camion con la benedizione del ministro. Dopo i blocchi e le “perquisizioni” sulla A32 durante l’estate No Tav, Alfano ordinò cariche, arresti e l’invio di altri 250 militari in Clarea. Evidentemente questo governo, soprattutto nella sua componente di destra, mira a evitare lo strappo con alcuni dei propri settori sociali di riferimento, concedendo spazi di manovra negati ad altri.\r\nLa sinistra civilizzata, nei brevi periodi in cui è riuscita a saltare in sella al destriero governativo ha garantito la vita facile alla grande industria, facilitando la demolizione mattone su mattone di ogni forma di tutela per il lavoratori dipendenti e collaborando attivamente nella trasformazione di tanti di loro in lavoratori indipendenti ma di fatto subordinati. In tempi di crisi il popolo delle partite IVA si ritrova nella stessa condizione dei mercatari torinesi cui il comune chiede 500 euro al mese per la pulizia dei mercati. A tutti questi si aggiungono i tanti giovani – uno su quattro dicono le statistiche - che non hanno né un lavoro né un percorso formativo. Per non dire dei ragazzi degli istituti professionali che sanno di essere parcheggiati in attesa di disoccupazione.\r\n\r\nNelle piazze torinesi animate dal popolo delle periferie, quello cresciuto tra facebook e il bar sport, si sono ritrovati quelli dei banchi dei mercati, qualche disoccupato, i ragazzi degli istituti professionali.\r\n\r\n Nella sinistra intorno alle giornate di lotta indette dal “coordinamento 9 dicembre” si è sviluppato un dibattito molto ampio, spesso anche aspro.\r\n\r\nDi fronte all’ampiezza della partecipazione, alcuni hanno osservato che era difficile che il mestolo stesse in mano alla destra cittadina. A Torino sia la Destra istituzionale – Fratelli d’Italia – sia chi – come Forza Nuova e Casa Pound - vive nel limbo tra istituzioni e velleità rivoluzionarie – non avrebbero un peso ed una capacità organizzativa tali da poterlo fare.\r\n\r\nUn fatto è certo: nelle piazze di Torino e dintorni i rappresentanti di queste formazioni si sono fatti vedere più volte accolti dagli applausi della gente. Come è certo che buona parte delle tifoserie torinesi, ben presenti nei giorni più caldi, siano ormai da lunghi anni egemonizzate dall’estrema destra. In almeno un caso un esponente di “Alba Dorata” è stato cacciato dal blocco di piazza Derna grazie alla presenza di esponenti di sinistra, che avevano deciso di partecipare all’iniziativa. È tuttavia un caso isolato che non cambia il quadro. Anche la favola dei profughi africani, accolti con un applauso da quelli del “coordinamento 9 dicembre” è stata è stata ampiamente sfatata da resoconti circolati successivamente.\r\nLa questione è comunque mal posta. Qualunque sia stato il peso della destra, nelle sue varie componenti, la domanda vera è un’altra. Il movimento che si è espresso nelle piazze in un garrir di tricolori, inviti alla polizia a fraternizzare, richiami all’unità della nazione contro la casta corrotta e asservita ai diktat dell’Europa delle banche è un movimento di destra o no?\r\nNoi pensiamo di si.\r\n\r\nI resoconti fatti girare dalla sinistra radicale torinese hanno privilegiato l’immagine di piazze ambiguamente acefale: prive di capi, prive di organizzazione, prive di reale comprensione delle ragioni che li avevano condotti lì. Una sorta di creta che chiunque avrebbe potuto plasmare e dirigere. Una descrizione a mio avviso inconsapevolmente intrisa di orgoglio intellettuale e del mai sopito sogno di poter governare o alimentarsi delle jacquerie. Alcuni ne hanno assunto il mero contenuto antisistema, nella vecchia convinzione che il nemico del tuo nemico è un tuo amico. Una mostruosità ideologica che abbiamo visto annegare nel sangue tra Baghdad e Kabul ma sinora non ci aveva toccato da vicino.\r\n\r\nBisogna guardare in faccia la realtà. Una realtà che certo non ci piace, ma il mero desiderio di vederla diversa non si concreta, se non la si sa vedere per quello che è. I protagonisti di questi giorni di blocchi e serrate sono i figli del deserto sociale degli ultimi trent'anni. Gente che credeva di avere ancoraggi e certezze e oggi si trova sospesa sul nulla. \r\nL’analisi della composizione di classe di questo movimento, della sua natura popolare, periferica,perché avvertivamo forte la necessità di capire ed intervenire per poter fermare l’onda lunga di destra che ha messo a loro disposizione un lessico comune, una chiave di lettura ed un orizzonte progettuale.\r\n\r\nSiamo andati nelle piazze e nei bar ad ascoltare e capire il vento che stava cambiando, perché in periferia, tra i mercati e le strade attraversate dai cortei per l'ordine e la legalità, tra la gente che fatica a campare e non vede prospettive, ci siamo da anni. Da anni sappiamo che l'incapacità di parlare con gli italiani poveri, quelli che guardano con simpatia alla destra xenofoba e razzista, quelli che avevano qualcosa e ora hanno solo paura, avrebbe aperto la strada a chi predica il governo forte, la polizia ovunque, la nazione contro la globalizzazione, l'unione degli italiani, sfruttati e sfruttatori contro il grande complotto internazionale delle banche. Oggi lo chiamano signoraggio: non puntano il dito sugli ebrei ma la melodia della canzone è la stessa dagli anni Trenta del secolo scorso. Gli stranieri di seconda generazione che sventolavano il tricolore con i loro colleghi del mercato, sebbene in realtà pochini rispetto la realtà dei banchi, non ci stupiscono: li abbiamo visti inveire contro altri stranieri, ultimi arrivati che “delinquono”. Molti di loro assumono giovani connazionali poveri e li sfruttano senza pietà così come gli italiani doc. Il gioco del capitalismo piace ad ogni latitudine.\r\n\r\nI protagonisti di questi tre/quattro giorni di blocchi e iniziative sono ceti impoveriti e rancorosi: l’Italia delle clientele prima democristiane e socialiste, poi forza italiote, oggi piegata dalla crisi, dalla pressione fiscale, dall’indebolirsi della compagine berlusconiana e della Lega, partiti politici di riferimento per oltre vent’anni.\r\n\r\nIl loro programma – esplicitamente delineato nei volantini tricolori distribuiti in ogni dove – è chiaro: far cadere il governo, sostituirlo con un esecutivo forte e onesto, capace di traghettare l’Italia fuori dall’euro, fuori dall’Europa delle banche, garantendo significative misure protezioniste.\r\nIl tutto all’insegna di una deriva identitaria di segno nazionalista dove la nazione è descritta e vissuta come un corpo sano attaccato da agenti esterni che si ricompone intorno all’alleanza interclassista dei produttori.\r\nQuesto è un programma di destra. Di destra radicale.\r\n\r\nNon sappiamo se l’episodio dei caschi tolti davanti all’agenzia delle entrate di Torino, o l’abbraccio tra un manifestante e un poliziotto a Milano siano solo foto strappate alle realtà, ma resta il fatto che la volontà di fraternizzare con la polizia ha attraversato le varie piazze d’Italia. A Pistoia gli studenti gridavano “celerino, sei uno di noi!”. La retorica dei lavoratori della polizia, sfruttati e vittime di una classe politica corrotta e parassitaria, è tipica della destra di ogni tempo.\r\n\r\nÈ ingeneroso sostenere che la gente “comune” che ha partecipato alle serrate dei negozi ed ai blocchi del traffico non capisse la portata simbolica e reale di un movimento esplicitamente eversivo dell’ordine esistente. In ambito istituzionale chi ha cercato un’interlocuzione si è dovuto arrendere, perché non c’era spazio di mediazione. Oggi forse alcuni del “coordinamento 9 dicembre” pare siano disposti a sedersi ad un tavolo con il governo, ma nella settimana della serrata e dei blocchi non c'è stato, né avrebbe potuto esserci, spazio per il dialogo. Chi è sceso in piazza lo ha fatto perché convinto di fare la rivoluzione: lo dimostrano gli slogan, gli striscioni, i racconti che vengono diffusi.\r\n\r\nIn questo “tutti a casa” c'è chi ha sentito l'eco delle lotte argentine, chi vi ha letto una volontà di rottura dell'istituito che avrebbe potuto aprire delle possibilità.\r\n\r\nSappiamo bene quanta forza abbiano i momenti di rottura, la scelta di uscire di casa, di spezzare l’ordine che ci piega alla quotidianità scandita dai ritmi di una vita regolata altrove, tuttavia in quelle piazze questa forza si è alimentata di simboli che portano lontano da una prospettiva di emancipazione sociale e di libertà.\r\nL’interruzione della quotidianità agita da chi normalmente affida il proprio futuro all'eterna ripetizione del proprio presente è un evento raro, talora foriero di una rottura radicale. Tuttavia la rottura di un ordine non prefigura necessariamente che la strada intrapresa sia quella giusta. \r\n\r\nNell’estrema sinistra c’è chi ha tentato da cavalcare l’onda nella speranza di mutarla di segno. Purtroppo questo tentativo, limitandosi quasi sempre alla spinta per la radicalizzazione delle pratiche di piazza, che tuttavia non ha né saputo né voluto farsi anche critica dei contenuti di estrema destra della protesta, non ha prodotto risultati significativi.\r\n\r\nL’ipotesi che chi era in piazza esprimesse una ribellione generica senza reale adesione ai contenuti proposti dal Coordinamento 9 dicembre si è rivelata una favola consolatoria. Mercoledì 11 in piazza Castello è bastato che il piccolo caudillo di turno decretasse il “tutti a casa” in attesa di una prossima “marcia su Roma” perché il movimento si sciogliesse, lasciandosi solo una coda di studenti in libera uscita il giorno successivo.\r\n\r\nVedere quello che non c’è è frutto di pregiudizio ideologico, quel pregiudizio ideologico che consiste nel formulare una tesi e cercare – a costo di deformarla – la conferma nella realtà. Il prezzo da pagare è una descrizione che cancella la soggettività esplicita di chi parla e agisce, nell’inseguimento di un’oggettività materiale che si suppone possa, se adeguatamente spinta in avanti, modificare di segno la protesta.\r\n\r\nArticolare un discorso capace di creare legami di classe, al di là delle diverse condizioni normative, fiscali, di reddito è in se difficile. La materialità stessa della condizione dei lavoratori autonomi, nelle sue diverse e distanti articolazioni, lascia poco spazio alla costruzione di percorsi comuni di solidarietà e lotta con gli altri settori popolari.\r\n\r\n Se poi l'immaginario che sostiene una lotta si articola fuori – e contro – l'orizzonte di classe, non si può far finta che la narrazione di chi agisce una lotta sia irrilevante.\r\n\r\nA Torino, a blocchi finiti, abbiamo sentito un giovane protagonista delle piazze arringare gli esponenti di un presidio di sindacalisti di base ed esponenti della sinistra post istituzionale, perché si unissero nel segno del tricolore, buttando a mare falce e martello, per salvare la nazione.\r\n\r\n Quel ragazzo ci pareva la perfetta incarnazione dello slogan di fondo che ha attraversato piazze, mercati, bar e faccia libro, quell'andare oltre la destra e la sinistra tipico della Nuova Destra, quella meno brutale, più raffinata ma non per questo meno pericolosa.\r\nQuando la nozione di “popolo” sostituisce quella di “classe” non siamo di fronte ad una mera trasposizione politica del tifo da calcio ma all'eterna riproposizione del mito della purezza organica della nazione come corpo sano, dove tutti fanno gerarchicamente la loro parte.\r\nChi a sinistra sottovaluta l'importanza dei simboli, chi azzarda paragoni con le rivoluzioni della primavera araba, dimentica che tra bandiere nazionali e religione, quelle primavere sono presto declinate verso l'autunno ed il più gelido degli inverni.\r\nChi frequenta i bar di periferia sa che sesso, calcio, soldi, pioggia sono gli argomenti di sempre, conditi di frizzi, lazzi, scoregge verbali e l'idea che “così va il mondo”. Talora capita che qualcuno si lasci andare a dichiarazioni roboanti, all'insegna del fuoco e dello spaccar tutto. Poi il bar chiude e la rivoluzione dei rivoluzionari dell'aperitivo viene rimandata al giorno successivo.\r\n\r\nSe capita che quelli del bar sport escano davvero in strada è un segnale che sarebbe miope non vedere. Ma sarebbe ancora più miope leggere la realtà con gli occhi tristi degli orfani del soggetto sociale.\r\n\r\nQualcuno a Torino ha scritto che bisogna affondare le mani nella merda perché dai diamanti dell'ideologia non nasce nulla. Siamo d'accordo. Purché non ci si illuda che fare a mattonate contro la polizia tra chi sventola tricolori possa essere il grimaldello che apre il vaso di Pandora dei propri desideri.","17 Dicembre 2013","2018-10-17 22:59:36","http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2013/12/torino-piazza-castello-9-dic-200x110.jpg","Forconi a Torino. I figli del deserto","podcast",1387245115,[167,168,169],"http://radioblackout.org/tag/9-dicembre/","http://radioblackout.org/tag/forconi/","http://radioblackout.org/tag/torino/",[151,149,147],{"post_content":172},{"matched_tokens":173,"snippet":174,"value":175},[69],"Anche la favola dei profughi \u003Cmark>africani\u003C/mark>, accolti con un applauso da","Decodificare quanto è accaduto a Torino nell’ultima settimana non è facile. Specie se lo si fa con lo sguardo interessato di chi sceglie un punto di vista di classe, di chi ha l’attitudine alla partecipazione diretta, di chi mira alla costruzione di esperienze di autogoverno territoriale fuori tutela statale, definendo uno spazio e un tempo capaci di attraversare l’immaginario sociale, facendosi pratica concreta.\r\n\r\nAnarres ne ha discusso con Pietro e con Stefano, uno di Genova, l'altro di Torino per cercare di capire quello che stava succedendo nelle piazze ed il dibattito che ne era scaturito in città, tra fascinazioni e ripulse.\r\nNe è scaturito un dibatto intenso, sovente intervallato dagli sms dei nostri ascoltatori.\r\nVe lo proponiamo nella sua interezza, auspicando che possa innervare un ulteriore riflessione.\r\nDi seguito anche una nostra valutazione.\r\nBuon ascolto e buona lettura.\r\n\r\nAscolta la diretta con Pietro:\r\n\r\n2013 12 13 pietro 9 dic\r\n\r\ne i commenti arrivati:\r\n\r\n2013 12 13 pietro 9 dic commenti\r\n\r\nAscolta la lunga chiacchierata con Stefano e i commenti arrivati.\r\nPrima parte:\r\n\r\n2013 12 13 stafano parte prima\r\n\r\nSeconda parte:\r\n\r\n2013 12 13 stefano parte seconda\r\n\r\nNella sinistra civilizzata e di governo c’è da decenni un netto disprezzo per l’Italia a cavallo tra Drive in e il presidente operaio e puttaniere. L’Italia che si è affidata per vent’anni ad un partito capace di attuare politiche ultraliberiste, garantendo altresì la sopravvivenza di figure sociali che altrove la globalizzazione ha spazzato via: commercianti, artigiani, padroncini, agricoltori su scala familiare o con pochi dipendenti.\r\n\r\nLa settimana precedente quella del 9 dicembre, il governo, intuendo la miscela esplosiva che si stava preparando, ha concesso tutto quello che volevano alle organizzazioni degli autotrasportatori, mentre la moderatissima Coldiretti ha organizzato la manifestazione al Brennero, dove venivano bloccati e perquisiti i camion con la benedizione del ministro. Dopo i blocchi e le “perquisizioni” sulla A32 durante l’estate No Tav, Alfano ordinò cariche, arresti e l’invio di altri 250 militari in Clarea. Evidentemente questo governo, soprattutto nella sua componente di destra, mira a evitare lo strappo con alcuni dei propri settori sociali di riferimento, concedendo spazi di manovra negati ad altri.\r\nLa sinistra civilizzata, nei brevi periodi in cui è riuscita a saltare in sella al destriero governativo ha garantito la vita facile alla grande industria, facilitando la demolizione mattone su mattone di ogni forma di tutela per il lavoratori dipendenti e collaborando attivamente nella trasformazione di tanti di loro in lavoratori indipendenti ma di fatto subordinati. In tempi di crisi il popolo delle partite IVA si ritrova nella stessa condizione dei mercatari torinesi cui il comune chiede 500 euro al mese per la pulizia dei mercati. A tutti questi si aggiungono i tanti giovani – uno su quattro dicono le statistiche - che non hanno né un lavoro né un percorso formativo. Per non dire dei ragazzi degli istituti professionali che sanno di essere parcheggiati in attesa di disoccupazione.\r\n\r\nNelle piazze torinesi animate dal popolo delle periferie, quello cresciuto tra facebook e il bar sport, si sono ritrovati quelli dei banchi dei mercati, qualche disoccupato, i ragazzi degli istituti professionali.\r\n\r\n Nella sinistra intorno alle giornate di lotta indette dal “coordinamento 9 dicembre” si è sviluppato un dibattito molto ampio, spesso anche aspro.\r\n\r\nDi fronte all’ampiezza della partecipazione, alcuni hanno osservato che era difficile che il mestolo stesse in mano alla destra cittadina. A Torino sia la Destra istituzionale – Fratelli d’Italia – sia chi – come Forza Nuova e Casa Pound - vive nel limbo tra istituzioni e velleità rivoluzionarie – non avrebbero un peso ed una capacità organizzativa tali da poterlo fare.\r\n\r\nUn fatto è certo: nelle piazze di Torino e dintorni i rappresentanti di queste formazioni si sono fatti vedere più volte accolti dagli applausi della gente. Come è certo che buona parte delle tifoserie torinesi, ben presenti nei giorni più caldi, siano ormai da lunghi anni egemonizzate dall’estrema destra. In almeno un caso un esponente di “Alba Dorata” è stato cacciato dal blocco di piazza Derna grazie alla presenza di esponenti di sinistra, che avevano deciso di partecipare all’iniziativa. È tuttavia un caso isolato che non cambia il quadro. Anche la favola dei profughi \u003Cmark>africani\u003C/mark>, accolti con un applauso da quelli del “coordinamento 9 dicembre” è stata è stata ampiamente sfatata da resoconti circolati successivamente.\r\nLa questione è comunque mal posta. Qualunque sia stato il peso della destra, nelle sue varie componenti, la domanda vera è un’altra. Il movimento che si è espresso nelle piazze in un garrir di tricolori, inviti alla polizia a fraternizzare, richiami all’unità della nazione contro la casta corrotta e asservita ai diktat dell’Europa delle banche è un movimento di destra o no?\r\nNoi pensiamo di si.\r\n\r\nI resoconti fatti girare dalla sinistra radicale torinese hanno privilegiato l’immagine di piazze ambiguamente acefale: prive di capi, prive di organizzazione, prive di reale comprensione delle ragioni che li avevano condotti lì. Una sorta di creta che chiunque avrebbe potuto plasmare e dirigere. Una descrizione a mio avviso inconsapevolmente intrisa di orgoglio intellettuale e del mai sopito sogno di poter governare o alimentarsi delle jacquerie. Alcuni ne hanno assunto il mero contenuto antisistema, nella vecchia convinzione che il nemico del tuo nemico è un tuo amico. Una mostruosità ideologica che abbiamo visto annegare nel sangue tra Baghdad e Kabul ma sinora non ci aveva toccato da vicino.\r\n\r\nBisogna guardare in faccia la realtà. Una realtà che certo non ci piace, ma il mero desiderio di vederla diversa non si concreta, se non la si sa vedere per quello che è. I protagonisti di questi giorni di blocchi e serrate sono i figli del deserto sociale degli ultimi trent'anni. Gente che credeva di avere ancoraggi e certezze e oggi si trova sospesa sul nulla. \r\nL’analisi della composizione di classe di questo movimento, della sua natura popolare, periferica,perché avvertivamo forte la necessità di capire ed intervenire per poter fermare l’onda lunga di destra che ha messo a loro disposizione un lessico comune, una chiave di lettura ed un orizzonte progettuale.\r\n\r\nSiamo andati nelle piazze e nei bar ad ascoltare e capire il vento che stava cambiando, perché in periferia, tra i mercati e le strade attraversate dai cortei per l'ordine e la legalità, tra la gente che fatica a campare e non vede prospettive, ci siamo da anni. Da anni sappiamo che l'incapacità di parlare con gli italiani poveri, quelli che guardano con simpatia alla destra xenofoba e razzista, quelli che avevano qualcosa e ora hanno solo paura, avrebbe aperto la strada a chi predica il governo forte, la polizia ovunque, la nazione contro la globalizzazione, l'unione degli italiani, sfruttati e sfruttatori contro il grande complotto internazionale delle banche. Oggi lo chiamano signoraggio: non puntano il dito sugli ebrei ma la melodia della canzone è la stessa dagli anni Trenta del secolo scorso. Gli stranieri di seconda generazione che sventolavano il tricolore con i loro colleghi del mercato, sebbene in realtà pochini rispetto la realtà dei banchi, non ci stupiscono: li abbiamo visti inveire contro altri stranieri, ultimi arrivati che “delinquono”. Molti di loro assumono giovani connazionali poveri e li sfruttano senza pietà così come gli italiani doc. Il gioco del capitalismo piace ad ogni latitudine.\r\n\r\nI protagonisti di questi tre/quattro giorni di blocchi e iniziative sono ceti impoveriti e rancorosi: l’Italia delle clientele prima democristiane e socialiste, poi forza italiote, oggi piegata dalla crisi, dalla pressione fiscale, dall’indebolirsi della compagine berlusconiana e della Lega, partiti politici di riferimento per oltre vent’anni.\r\n\r\nIl loro programma – esplicitamente delineato nei volantini tricolori distribuiti in ogni dove – è chiaro: far cadere il governo, sostituirlo con un esecutivo forte e onesto, capace di traghettare l’Italia fuori dall’euro, fuori dall’Europa delle banche, garantendo significative misure protezioniste.\r\nIl tutto all’insegna di una deriva identitaria di segno nazionalista dove la nazione è descritta e vissuta come un corpo sano attaccato da agenti esterni che si ricompone intorno all’alleanza interclassista dei produttori.\r\nQuesto è un programma di destra. Di destra radicale.\r\n\r\nNon sappiamo se l’episodio dei caschi tolti davanti all’agenzia delle entrate di Torino, o l’abbraccio tra un manifestante e un poliziotto a Milano siano solo foto strappate alle realtà, ma resta il fatto che la volontà di fraternizzare con la polizia ha attraversato le varie piazze d’Italia. A Pistoia gli studenti gridavano “celerino, sei uno di noi!”. La retorica dei lavoratori della polizia, sfruttati e vittime di una classe politica corrotta e parassitaria, è tipica della destra di ogni tempo.\r\n\r\nÈ ingeneroso sostenere che la gente “comune” che ha partecipato alle serrate dei negozi ed ai blocchi del traffico non capisse la portata simbolica e reale di un movimento esplicitamente eversivo dell’ordine esistente. In ambito istituzionale chi ha cercato un’interlocuzione si è dovuto arrendere, perché non c’era spazio di mediazione. Oggi forse alcuni del “coordinamento 9 dicembre” pare siano \u003Cmark>disposti\u003C/mark> a sedersi ad un tavolo con il governo, ma nella settimana della serrata e dei blocchi non c'è stato, né avrebbe potuto esserci, spazio per il dialogo. Chi è sceso in piazza lo ha fatto perché convinto di fare la rivoluzione: lo dimostrano gli slogan, gli striscioni, i racconti che vengono diffusi.\r\n\r\nIn questo “tutti a casa” c'è chi ha sentito l'eco delle lotte argentine, chi vi ha letto una volontà di rottura dell'istituito che avrebbe potuto aprire delle possibilità.\r\n\r\nSappiamo bene quanta forza abbiano i momenti di rottura, la scelta di uscire di casa, di spezzare l’ordine che ci piega alla quotidianità scandita dai ritmi di una vita regolata altrove, tuttavia in quelle piazze questa forza si è alimentata di simboli che portano lontano da una prospettiva di emancipazione sociale e di libertà.\r\nL’interruzione della quotidianità agita da chi normalmente affida il proprio futuro all'eterna ripetizione del proprio presente è un evento raro, talora foriero di una rottura radicale. Tuttavia la rottura di un ordine non prefigura necessariamente che la strada intrapresa sia quella giusta. \r\n\r\nNell’estrema sinistra c’è chi ha tentato da cavalcare l’onda nella speranza di mutarla di segno. Purtroppo questo tentativo, limitandosi quasi sempre alla spinta per la radicalizzazione delle pratiche di piazza, che tuttavia non ha né saputo né voluto farsi anche critica dei contenuti di estrema destra della protesta, non ha prodotto risultati significativi.\r\n\r\nL’ipotesi che chi era in piazza esprimesse una ribellione generica senza reale adesione ai contenuti proposti dal Coordinamento 9 dicembre si è rivelata una favola consolatoria. Mercoledì 11 in piazza Castello è bastato che il piccolo caudillo di turno decretasse il “tutti a casa” in attesa di una prossima “marcia su Roma” perché il movimento si sciogliesse, lasciandosi solo una coda di studenti in libera uscita il giorno successivo.\r\n\r\nVedere quello che non c’è è frutto di pregiudizio ideologico, quel pregiudizio ideologico che consiste nel formulare una tesi e cercare – a costo di deformarla – la conferma nella realtà. Il prezzo da pagare è una descrizione che cancella la soggettività esplicita di chi parla e agisce, nell’inseguimento di un’oggettività materiale che si suppone possa, se adeguatamente spinta in avanti, modificare di segno la protesta.\r\n\r\nArticolare un discorso capace di creare legami di classe, al di là delle diverse condizioni normative, fiscali, di reddito è in se difficile. La materialità stessa della condizione dei lavoratori autonomi, nelle sue diverse e distanti articolazioni, lascia poco spazio alla costruzione di percorsi comuni di solidarietà e lotta con gli altri settori popolari.\r\n\r\n Se poi l'immaginario che sostiene una lotta si articola fuori – e contro – l'orizzonte di classe, non si può far finta che la narrazione di chi agisce una lotta sia irrilevante.\r\n\r\nA Torino, a blocchi finiti, abbiamo sentito un giovane protagonista delle piazze arringare gli esponenti di un presidio di sindacalisti di base ed esponenti della sinistra post istituzionale, perché si unissero nel segno del tricolore, buttando a mare falce e martello, per salvare la nazione.\r\n\r\n Quel ragazzo ci pareva la perfetta incarnazione dello slogan di fondo che ha attraversato piazze, mercati, bar e faccia libro, quell'andare oltre la destra e la sinistra tipico della Nuova Destra, quella meno brutale, più raffinata ma non per questo meno pericolosa.\r\nQuando la nozione di “popolo” sostituisce quella di “classe” non siamo di fronte ad una mera trasposizione politica del tifo da calcio ma all'eterna riproposizione del mito della purezza organica della nazione come corpo sano, dove tutti fanno gerarchicamente la loro parte.\r\nChi a sinistra sottovaluta l'importanza dei simboli, chi azzarda paragoni con le rivoluzioni della primavera araba, dimentica che tra bandiere nazionali e religione, quelle primavere sono presto declinate verso l'autunno ed il più gelido degli inverni.\r\nChi frequenta i bar di periferia sa che sesso, calcio, soldi, pioggia sono gli argomenti di sempre, conditi di frizzi, lazzi, scoregge verbali e l'idea che “così va il mondo”. Talora capita che qualcuno si lasci andare a dichiarazioni roboanti, all'insegna del fuoco e dello spaccar tutto. Poi il bar chiude e la rivoluzione dei rivoluzionari dell'aperitivo viene rimandata al giorno successivo.\r\n\r\nSe capita che quelli del bar sport escano davvero in strada è un segnale che sarebbe miope non vedere. Ma sarebbe ancora più miope leggere la realtà con gli occhi tristi degli orfani del soggetto sociale.\r\n\r\nQualcuno a Torino ha scritto che bisogna affondare le mani nella merda perché dai diamanti dell'ideologia non nasce nulla. Siamo d'accordo. Purché non ci si illuda che fare a mattonate contro la polizia tra chi sventola tricolori possa essere il grimaldello che apre il vaso di Pandora dei propri desideri.",[177],{"field":90,"matched_tokens":178,"snippet":174,"value":175},[69],1155199534322679800,{"best_field_score":181,"best_field_weight":131,"fields_matched":14,"num_tokens_dropped":46,"score":182,"tokens_matched":38,"typo_prefix_score":183},"1112319197184","1155199534322679921",4,6637,{"collection_name":164,"first_q":23,"per_page":135,"q":23},8,["Reactive",188],{},["Set"],["ShallowReactive",191],{"$fbAxCaxovUWuusFtLxrIZ3vlAlwSSEnhLC_bckcH72gg":-1,"$fesI9cLjaUkwzcx9kfonywBF0nbyGqnu13FOMxNK1WZ8":-1},true,"/search?query=despoti+africani"]