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Relatore della serata sarà Eric Gobetti, storico e e ricercatore che sulle vicende inerenti l'esodo degli italiani da Istria e Dalmazia e sulla resistenza Jugoslava e sulla partecipazione di molti disertori dell'esercito italiano, ha scritto diversi libri e realizzato documentari.\r\nI fascisti di Aliud hanno minacciato di bloccare fisicamente l'iniziativa qualora la Circoscrizione non annullasse l'evento. Accusano Eric Gobetti di essere un negazionista.\r\n\r\nÈ un ulteriore tentativo di censurare chi fa il mestiere di storico e si occupa, con l'occhio critico che lo storico deve avere, delle complesse vicende che coinvolsero quelle zone lungo tutto il primo Novecento. \r\nLa riscrittura della storia operata dalla destra italiana, con l'avvallo e l'appoggio attivo delle istituzioni, vuole cancellare completamente la memoria dei crimini commessi dall'Esercito Italiano, l'italianizzazione forzata e le violenze dopo la conquista di quei territori a seguito della Prima Guerra mondiale, l'invasione della Jugoslava e gli eccidi in Slovenia. Un’operazione attuata riesumando la favola logora degli \"Italiani brava gente\".\r\n\r\nL'esodo giuliano-dalmata ha le sue radici nelle politiche criminali volute dallo stato italiano, e le vittime delle persecuzioni anti-italiane subito dopo la fine della guerra, sono state le ultime vittime del fascismo stesso. Il fenomeno foibe va inquadrato in un processo storico pluridecennale che ha sconvolto le vite di quelle popolazioni che si trovarono a vivere su frontiere e territori rivendicati dai vari nazionalismi.\r\n\r\nI fascisti non vogliono che si parli di questo.\r\n\r\nAscolta la diretta con Eric Gobetti:\r\nAscolta la diretta con Eric Gobetti:\r\n[audio mp3=\"https://radioblackout.org/wp-content/uploads/2020/02/2020.02.04-09.00.00-.foibe_.mp3\"][/audio]\r\n\r\n ","4 Febbraio 2020","2020-02-04 13:41:50","http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2020/02/maxresdefault-200x110.jpg","\u003Cimg width=\"300\" height=\"169\" src=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2020/02/maxresdefault-300x169.jpg\" class=\"ais-Hit-itemImage\" alt=\"\" decoding=\"async\" loading=\"lazy\" srcset=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2020/02/maxresdefault-300x169.jpg 300w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2020/02/maxresdefault-1024x576.jpg 1024w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2020/02/maxresdefault-768x432.jpg 768w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2020/02/maxresdefault.jpg 1280w\" sizes=\"auto, (max-width: 300px) 100vw, 300px\" />","La giornata del ricordo fascista e la riscrittura della storia",1580821218,[103,104,105,62],"http://radioblackout.org/tag/aliud/","http://radioblackout.org/tag/antifa/","http://radioblackout.org/tag/confine-orientale/",[25,18,107,15],"confine orientale",{"post_content":109},{"matched_tokens":110,"snippet":112,"value":113},[111],"Istria","inerenti l'esodo degli italiani da \u003Cmark>Istria\u003C/mark> e Dalmazia e sulla resistenza","Mercoledì 5 febbraio presso la sala della Terza Circoscrizione di Torino si terrà una serata sulle vicende del confine orientale alla fine del secondo conflitto mondiale. 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Non solo. C’era anche l’esplicito invito a comunicare in prefettura tutte le iniziative intraprese.\r\nUn veloce ritorno alla storia di stato. Una riedizione del fascistissimo Ministero della cultura popolare? Un segnale inquietante dell’avanzare del revisionismo imposto dai prefetti ai territori.\r\nNe abbiamo parlati con Cosimo della Cub scuola.\r\n\r\nAscolta la diretta:\r\n\r\n[audio mp3=\"https://radioblackout.org/wp-content/uploads/2023/02/2023-02-14-coco-minculpop.mp3\"][/audio]","14 Febbraio 2023","2023-02-14 20:10:22","http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2023/02/Revisionismo-Historico-200x110.jpg","\u003Cimg width=\"300\" height=\"200\" src=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2023/02/Revisionismo-Historico-300x200.jpg\" class=\"ais-Hit-itemImage\" alt=\"\" decoding=\"async\" loading=\"lazy\" srcset=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2023/02/Revisionismo-Historico-300x200.jpg 300w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2023/02/Revisionismo-Historico-1024x682.jpg 1024w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2023/02/Revisionismo-Historico-768x512.jpg 768w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2023/02/Revisionismo-Historico-1536x1024.jpg 1536w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2023/02/Revisionismo-Historico.jpg 1688w\" sizes=\"auto, (max-width: 300px) 100vw, 300px\" />","Torino. 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Perché non si può parlare di “pulizia etnica”? Cosa sono le foibe? Quali sono i contesti politici di questi avvenimenti? E della ricostruzione dei fatti?\r\n\r\nLo facciamo attraverso la lettura di alcuni pezzi scelti dal libro di Eric Gobetti, “E allora le foibe?”, edito da Laterza (2021).\r\n\r\nUn estratto:\r\n\r\n«Con la fine della Guerra Fredda, infatti, anche il contesto politico italiano è cambiato. Gli eredi del Partito comunista, fondatori del PDS, poi DS, riescono ad uscire quasi indenni dagli scandali di Mani Pulite. Hanno tuttavia urgente bisogno di una nuova legittimazione politica non più basata sull’ideologia. Per poter diventare partito di governo, è necessario presentarsi come forza politica nazionale e il riconoscimento ufficiale della vicenda delle foibe sembra funzionale a questa strategia. Esso consente di deplorare un “crimine del comunismo” e al tempo stesso di mostrarsi paladini della nazione, celebrando le vittime italiane della repressione straniera. Questa operazione politica trova ampia e comprensibile accoglienza dalla parte opposta dello spettro parlamentare, ovvero in quella forza neofascista che a sua volta ha necessità di legittimarsi come partito di governo, ovvero Alleanza nazionale.\r\n\r\nÈ dunque una particolare congiuntura politica che porta alla ribalta la questione delle foibe e dell’esodo, che da tema storico tabù per tutti gli schieramenti entra improvvisamente nell’agenda politica dei principali partiti. Tutto ciò conduce, nel giro di pochi anni, all’istituzione di una giornata commemorativa. Con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, votata in maniera bipartisan dalla stragrande maggioranza del parlamento, “la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale ‘Giorno del Ricordo’ al “fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. [...] Nel momento in cui questo tema è entrato nel discorso pubblico lo ha fatto con il linguaggio, gli slogan, le parole d’ordine degli unici che ne avevano fatto un uso politico fino ad allora: i nazisti fra il 1943 e il 1945, e in seguito i neofascisti. Solo in parte sono state ascoltate le esigenze di espressione e di riconoscimento avanzate dall’associazionismo degli esuli, spesso d’altronde diviso al suo interno. Basti pensare alla visione univoca dell’italianità, certamente molto distante dalla percezione che ne hanno le persone che provengono da quelle regioni. Il complesso di stereotipi (la barbarie slava contrapposta alla civiltà italiana, l’estremismo ideologico comunista contrapposto alla pacifica società fascista...) e la ricostruzione parziale degli eventi (l’assenza del contesto, l’identificazione delle vittime da una parte sola) fanno parte del bagaglio memoriale dell’estrema destra».\r\n\r\n \r\n\r\n \r\n\r\n[audio mp3=\"https://radioblackout.org/wp-content/uploads/2022/02/Feb10-approfondimento-foibe.mp3\"][/audio]\r\n\r\n \r\n\r\n \r\n\r\nPlaylist contro chi foibeh:\r\n\r\nhttps://www.youtube.com/watch?v=NmEcgDykBO4\r\n\r\nhttps://www.youtube.com/watch?v=foLw7yuDuGg\r\n\r\nhttps://www.youtube.com/watch?v=-Vo11u-INoY ","10 Febbraio 2022","2022-02-10 14:40:40","http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2022/02/jugoslavia-dance-200x110.jpeg","\u003Cimg width=\"300\" height=\"169\" src=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2022/02/jugoslavia-dance-300x169.jpeg\" class=\"ais-Hit-itemImage\" alt=\"\" decoding=\"async\" loading=\"lazy\" srcset=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2022/02/jugoslavia-dance-300x169.jpeg 300w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2022/02/jugoslavia-dance-1024x576.jpeg 1024w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2022/02/jugoslavia-dance-768x432.jpeg 768w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2022/02/jugoslavia-dance.jpeg 1280w\" sizes=\"auto, (max-width: 300px) 100vw, 300px\" />","\"E allora le foibeh?!\"",1644503305,[104,168,62,169,170,171,172],"http://radioblackout.org/tag/eric-gobetti/","http://radioblackout.org/tag/giornata-del-ricordo/","http://radioblackout.org/tag/jugoslavia/","http://radioblackout.org/tag/nazionalismi/","http://radioblackout.org/tag/regione-piemonte/",[18,29,15,22,174,175,176],"jugoslavia","nazionalismi","regione piemonte",{"post_content":178},{"matched_tokens":179,"snippet":180,"value":181},[66],"dell’esodo dalle loro terre degli \u003Cmark>istria\u003C/mark>ni, fiumani e dalmati nel secondo","10 febbraio: Giorno del Ricordo.\r\n\r\nPartiamo della indecorosa propaganda “culturale” portata avanti in queste ultime settimane dalla Regione Piemonte – più di 30000 euro di soldi pubblici – per divulgare l’immagine di un “genocidio del popolo italiano” compiuto sul confine orientale dalle forze partigiane jugoslave.\r\n\r\nFacciamo un po’ di chiarezza, sia sui fatti storici, sia su come dagli anni Novanta e con sempre maggior legittimazione da parte istituzionale venga messa in atto una strumentalizzazione della memoria da parte di forze politiche neofasciste.\r\n\r\nPerché è improprio parlare di “italiani” al confine? 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Il mito degli “italiani brava gente”, assunto in modo trasversale a destra come a sinistra, fonda il nazionalismo italiano, un nazionalismo che si nutre di un’aura di innocenza e bonarietà “naturali”.\r\nIn Italia la memoria è la prima vittima del nazionalismo, che impone una sorta di memoria di stato, che diviene segno culturale condiviso. Una sorta di marchio di fabbrica. Si sacrificano le virtù eroiche ma si eleva l’antieroismo dei buoni a cifra di un’identità collettiva.\r\nPeccato che sia tutto falso. Falso come i fondali di cartone dei film di qualche anno fa. Eppure, nonostante le ricerche storiche abbiamo mostrato la ferocia della trama sottesa al mito, questo sopravvive e si riproduce negli anni.\r\nLa gestione delle giornate della “memoria” e del “ricordo” assunte in modo bipartisan dalle varie forze politiche ha contribuito ad alimentare questa favola rassicurante, impedendo una riflessione collettiva che individuasse nei nazionalismi la radice culturale del male.\r\nSiamo di fronte ad una “memoria di Stato”. Una Memoria che unifica il ricordo del genocidio di milioni di ebrei nei lager nazisti con quello di una violenza molto più circoscritta e di significato profondamente diverso.\r\nI vertici dello Stato cercano di istituire una assonanza tra due eventi incomparabili per un fine ben preciso: sacralizzare l’identità nazionale.\r\nIl 10 febbraio è stato scelto come rievocazione del Trattato di pace del 1947, quello che ha sancito per l’Italia sconfitta la perdita di qualche fetta di territorio al confine orientale. A questa data sono collegate le uccisioni di un paio di migliaia di abitanti, prevalentemente italiani, delle zone istriane e l’emigrazione forzata dei giuliano-dalmati che sono stimati attorno alle 250.000 unità (dal 1944 alla fine degli anni Cinquanta). Ma soprattutto nell’immaginario collettivo sono ormai entrate, come un incubo, le voragini carsiche delle foibe in cui una parte dei morti vennero gettati. Qui vi è un evidente elemento di psicologia sociale inconscia: queste fosse comuni improvvisate, dove erano stati già gettati cadaveri di soldati tedeschi e animali, rappresentano agli occhi di molti italiani di oggi una cavità infernale e un’ulteriore motivo di rivendicazione nazionalista.\r\nAttorno alle foibe ruotava per decenni la propaganda nazionalista e neofascista a Trieste e dintorni, esagerando a dismisura il numero degli uccisi e degli esuli e presentando l’evento come un atto di “barbarie slavo-comunista”. Ora i termini sono meno esplicitamente razzisti, ma in compenso il tema è stato assunto come proprio da quasi tutte le forze politiche. Anzi buona parte dei politici di sinistra, a cominciare dai vertici istituzionali, recita l’autocritica per la “cecità ideologica” che avrebbe fatto dimenticare questi italiani, e quindi fratelli, povere vittime innocenti. Sempre più spesso si ignorano volutamente le pesanti responsabilità dell’esercito italiano che occupò la regione di Lubiana e che non fu meno feroce dei nazisti. Incendi, impiccagioni, fucilazioni, deportazioni e torture furono praticate su larga scala per domare la resistenza partigiana. Tutto ciò si sommò alla valanga di misure repressive, linguistiche e penali, che aveva caratterizzato, per un ventennio, il dominio dei fascisti italiani sulle popolazioni slave.\r\nOgni storico con un minimo di dignità sa che le violenze rivolte agli italiani sconfitti di queste zone vanno inquadrate nel contesto bellico e postbellico e che si spiegano, in buona parte, come risposta all’oppressione nazionale precedente. Per motivi di opportunismo politico e di consenso elettorale, molti politici confermano però l’immagine degli “italiani brava gente” ingiustamente colpiti solo per motivi di odio e malvagità nazionale. Questo odio certamente esisteva, e procurò anche delle ingiustizie individuali, ma aveva forti radici e ragioni nell’esperienza patita collettivamente da chi, con un enorme costo umano, aveva sostenuto la lotta degli antifascisti.\r\nLa comoda etichetta dell’italiano, militare o civile, buono e umanitario (molto migliore del tedesco cattivo e feroce) si basa sull’esaltazione di pochi casi isolati di non collaborazione con i piani della repressione sanguinaria. Lo scopo inconfessabile di tale propaganda è di oscurare il collaborazionismo di massa con la politica della terra bruciata che, anche in Jugoslavia, fu condotta senza incertezze né pietà dall’esercito italiano di occupazione.\r\nIl diffuso vittimismo nazionale nell’Italia di oggi vuole nascondere la verità storica proprio mentre i politici gareggiano nel pentimento per la propria amnesia del passato sul tema delle foibe. Il Ricordo di Stato deve essere unilaterale, aumentare le dimensioni, condire la rievocazione con particolari raccapriccianti e spesso non dimostrati. Gli infoibati sarebbero stati delle persone senza alcun coinvolgimento nell’occupazione fascista, scelti solo come italiani, colpiti in quanto non si piegavano al vincitore slavo e alla dittatura comunista. Anche se è ben vero che il nuovo potere jugoslavo era il risultato di un totalitarismo politico fuso con un esercito particolarmente gerarchico nato in durissimi scontri armati, non va dimenticato quanto gli italiani, quasi tutti, di queste regioni giuliano-dalmate si fossero identificati nel regime fascista che li favoriva in tutti i modi.\r\nPer dovere storico, non va cancellato il fatto che i responsabili italiani, militari e funzionari di polizia, di molti crimini di guerra in Jugoslavia furono protetti dai regimi democratici italiani e che “per carità di patria” i processi a tali imputati non furono mai svolti. L’Italia democratica e formalmente antifascista del 1946, anche con il sostanziale accordo delle sinistre, dapprima promise di consegnare i criminali di guerra italiani agli stati che li richiedevano, poi dichiarò di processarli in patria, infine favorì la loro fuga all’estero. Vi furono anche casi di reintegro nell’apparato statale e di folgorante carriera, fino alla carica di prefetto. È l’ennesima prova della permanenza nelle istituzioni post 1945 di un’intera generazione di funzionari fascisti in grado di difendere il loro passato di “servitori dello stato”.\r\nSe le vicende drammatiche delle foibe e le volontà di non dimenticare non fossero un alibi per rimuovere i lati oscuri dell’Italia fascista e postfascista, tutti gli “armadi della vergogna” delle violenze belliche di parte italiana dovrebbero essere aperti. Essi offrirebbero le informazioni documentate per una vera e non vittimistica storia del ruolo di molti italiani durante e dopo il tragico regime la cui responsabilità non fu certamente solo di un tale nato a Predappio.\r\n\r\nNe abbiamo parlato con Claudio Venza, storico triestino\r\n\r\nAscolta la diretta:\r\n\r\n[audio mp3=\"https://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/02/2021-02-09-foibe-venza.mp3\"][/audio]","9 Febbraio 2021","2021-02-09 16:49:48","http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/02/arbe-lager-200x110.jpg","\u003Cimg width=\"300\" height=\"206\" src=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/02/arbe-lager-300x206.jpg\" class=\"ais-Hit-itemImage\" alt=\"\" decoding=\"async\" loading=\"lazy\" srcset=\"http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/02/arbe-lager-300x206.jpg 300w, http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/02/arbe-lager.jpg 512w\" sizes=\"auto, (max-width: 300px) 100vw, 300px\" />","Memoria di Stato. 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Il mito degli “italiani brava gente”, assunto in modo trasversale a destra come a sinistra, fonda il nazionalismo italiano, un nazionalismo che si nutre di un’aura di innocenza e bonarietà “naturali”.\r\nIn Italia la memoria è la prima vittima del nazionalismo, che impone una sorta di memoria di stato, che diviene segno culturale condiviso. Una sorta di marchio di fabbrica. Si sacrificano le virtù eroiche ma si eleva l’antieroismo dei buoni a cifra di un’identità collettiva.\r\nPeccato che sia tutto falso. Falso come i fondali di cartone dei film di qualche anno fa. Eppure, nonostante le ricerche storiche abbiamo mostrato la ferocia della trama sottesa al mito, questo sopravvive e si riproduce negli anni.\r\nLa gestione delle giornate della “memoria” e del “ricordo” assunte in modo bipartisan dalle varie forze politiche ha contribuito ad alimentare questa favola rassicurante, impedendo una riflessione collettiva che individuasse nei nazionalismi la radice culturale del male.\r\nSiamo di fronte ad una “memoria di Stato”. Una Memoria che unifica il ricordo del genocidio di milioni di ebrei nei lager nazisti con quello di una violenza molto più circoscritta e di significato profondamente diverso.\r\nI vertici dello Stato cercano di istituire una assonanza tra due eventi incomparabili per un fine ben preciso: sacralizzare l’identità nazionale.\r\nIl 10 febbraio è stato scelto come rievocazione del Trattato di pace del 1947, quello che ha sancito per l’Italia sconfitta la perdita di qualche fetta di territorio al confine orientale. A questa data sono collegate le uccisioni di un paio di migliaia di abitanti, prevalentemente italiani, delle zone \u003Cmark>istria\u003C/mark>ne e l’emigrazione forzata dei giuliano-dalmati che sono stimati attorno alle 250.000 unità (dal 1944 alla fine degli anni Cinquanta). Ma soprattutto nell’immaginario collettivo sono ormai entrate, come un incubo, le voragini carsiche delle foibe in cui una parte dei morti vennero gettati. Qui vi è un evidente elemento di psicologia sociale inconscia: queste fosse comuni improvvisate, dove erano stati già gettati cadaveri di soldati tedeschi e animali, rappresentano agli occhi di molti italiani di oggi una cavità infernale e un’ulteriore motivo di rivendicazione nazionalista.\r\nAttorno alle foibe ruotava per decenni la propaganda nazionalista e neofascista a Trieste e dintorni, esagerando a dismisura il numero degli uccisi e degli esuli e presentando l’evento come un atto di “barbarie slavo-comunista”. Ora i termini sono meno esplicitamente razzisti, ma in compenso il tema è stato assunto come proprio da quasi tutte le forze politiche. Anzi buona parte dei politici di sinistra, a cominciare dai vertici istituzionali, recita l’autocritica per la “cecità ideologica” che avrebbe fatto dimenticare questi italiani, e quindi fratelli, povere vittime innocenti. Sempre più spesso si ignorano volutamente le pesanti responsabilità dell’esercito italiano che occupò la regione di Lubiana e che non fu meno feroce dei nazisti. Incendi, impiccagioni, fucilazioni, deportazioni e torture furono praticate su larga scala per domare la resistenza partigiana. Tutto ciò si sommò alla valanga di misure repressive, linguistiche e penali, che aveva caratterizzato, per un ventennio, il dominio dei fascisti italiani sulle popolazioni slave.\r\nOgni storico con un minimo di dignità sa che le violenze rivolte agli italiani sconfitti di queste zone vanno inquadrate nel contesto bellico e postbellico e che si spiegano, in buona parte, come risposta all’oppressione nazionale precedente. Per motivi di opportunismo politico e di consenso elettorale, molti politici confermano però l’immagine degli “italiani brava gente” ingiustamente colpiti solo per motivi di odio e malvagità nazionale. Questo odio certamente esisteva, e procurò anche delle ingiustizie individuali, ma aveva forti radici e ragioni nell’esperienza patita collettivamente da chi, con un enorme costo umano, aveva sostenuto la lotta degli antifascisti.\r\nLa comoda etichetta dell’italiano, militare o civile, buono e umanitario (molto migliore del tedesco cattivo e feroce) si basa sull’esaltazione di pochi casi isolati di non collaborazione con i piani della repressione sanguinaria. Lo scopo inconfessabile di tale propaganda è di oscurare il collaborazionismo di massa con la politica della terra bruciata che, anche in Jugoslavia, fu condotta senza incertezze né pietà dall’esercito italiano di occupazione.\r\nIl diffuso vittimismo nazionale nell’Italia di oggi vuole nascondere la verità storica proprio mentre i politici gareggiano nel pentimento per la propria amnesia del passato sul tema delle foibe. Il Ricordo di Stato deve essere unilaterale, aumentare le dimensioni, condire la rievocazione con particolari raccapriccianti e spesso non dimostrati. Gli infoibati sarebbero stati delle persone senza alcun coinvolgimento nell’occupazione fascista, scelti solo come italiani, colpiti in quanto non si piegavano al vincitore slavo e alla dittatura comunista. Anche se è ben vero che il nuovo potere jugoslavo era il risultato di un totalitarismo politico fuso con un esercito particolarmente gerarchico nato in durissimi scontri armati, non va dimenticato quanto gli italiani, quasi tutti, di queste regioni giuliano-dalmate si fossero identificati nel regime fascista che li favoriva in tutti i modi.\r\nPer dovere storico, non va cancellato il fatto che i responsabili italiani, militari e funzionari di polizia, di molti crimini di guerra in Jugoslavia furono protetti dai regimi democratici italiani e che “per carità di patria” i processi a tali imputati non furono mai svolti. L’Italia democratica e formalmente antifascista del 1946, anche con il sostanziale accordo delle sinistre, dapprima promise di consegnare i criminali di guerra italiani agli stati che li richiedevano, poi dichiarò di processarli in patria, infine favorì la loro fuga all’estero. Vi furono anche casi di reintegro nell’apparato statale e di folgorante carriera, fino alla carica di prefetto. È l’ennesima prova della permanenza nelle istituzioni post 1945 di un’intera generazione di funzionari fascisti in grado di difendere il loro passato di “servitori dello stato”.\r\nSe le vicende drammatiche delle foibe e le volontà di non dimenticare non fossero un alibi per rimuovere i lati oscuri dell’Italia fascista e postfascista, tutti gli “armadi della vergogna” delle violenze belliche di parte italiana dovrebbero essere aperti. Essi offrirebbero le informazioni documentate per una vera e non vittimistica storia del ruolo di molti italiani durante e dopo il tragico regime la cui responsabilità non fu certamente solo di un tale nato a Predappio.\r\n\r\nNe abbiamo parlato con Claudio Venza, storico triestino\r\n\r\nAscolta la diretta:\r\n\r\n[audio mp3=\"https://radioblackout.org/wp-content/uploads/2021/02/2021-02-09-foibe-venza.mp3\"][/audio]",[212],{"field":116,"matched_tokens":213,"snippet":209,"value":210},[66],{"best_field_score":152,"best_field_weight":121,"fields_matched":80,"num_tokens_dropped":48,"score":153,"tokens_matched":80,"typo_prefix_score":80},{"document":216,"highlight":237,"highlights":242,"text_match":150,"text_match_info":245},{"cat_link":217,"category":218,"comment_count":48,"id":219,"is_sticky":48,"permalink":220,"post_author":51,"post_content":221,"post_date":222,"post_excerpt":54,"post_id":219,"post_modified":223,"post_thumbnail":224,"post_thumbnail_html":225,"post_title":226,"post_type":59,"sort_by_date":227,"tag_links":228,"tags":233},[45],[47],"57737","http://radioblackout.org/2020/02/guerre-tra-poveri-per-un-servizio-imposto-al-territorio/","A volte erogare un servizio utile in un territorio può irritare perché si incide su un altro degli sporadici esistenti in una zona abbandonata da sempre. Un quartiere con una fama che non merita, come non la meritano i suoi allievi di scuola media con cui nessuno vuole spartire la struttura sottoutilizzata della Turoldo, un quartiere a vocazione migratoria, costruito proprio per ospitare prima gli istriani in fuga e poi i meridionali richiamati dalla fabbrica vorace, che li ha scaricati in un dormitorio (dove poi è stato collocato il carcere, il termovalorizzatore e sono stati soggetti a pogrom i rom che storicamente erano i primi ad abitarlo, per fare spazio al non-luogo stadio juventino, per i business residui della famiglia Agnelli, che lo hanno sconciato definitivamente... poco più in là gli ipermercati, l'inizio della filiera della discarica); per questo l'operazione dei media mainstream per creare un alone di razzismo attorno alla sindrome nimby non dovrebbe essere credibile, eppure l'alzata di scudi contro l'approdo del Cpia1 – che ora opera in un seminterrato della scuola media Saba (sempre all'interno della V circoscrizione), dove è stato rilevato il radon e sono a disposizione due bagni per 700 persone – nella scuola Giannelli delle Vallette, che causerebbe lo spostamento dei bambini alla scuola media Turoldo – vicina e gemella nell'aspetto – insinua il sospetto di rigetto del diverso, perché l'utenza della scuola per adulti è quasi per intero straniera. 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Questo sarà uno degli striscioni del corteo antifascista di domenica 7 febbraio alle Vallette. Forse basterebbe per dare il senso dell'iniziativa. Ovviamente non basta ma vale la pena ricordare che l'essenziale è tutto lì. Il corteo è promosso dai “Soliti ragazzi del quartiere” e da altri antifascisti torinesi, che quest'anno hanno voluto fosse il culmine di una settimana di informazione e lotta. I fascisti hanno indetto un corteo presso il villaggio Santa Caterina, la zona di case popolari che dagli anni Cinquanta ospita un folto gruppo di esuli istriani e dalmati. Per i fascisti è un'occasione per lucidare le armi della retorica nazionalista, facendo leva sulla memoria dolorosa dei profughi e dei loro discendenti, che presero la via dell'esilio tra il 1943 e il 1956.\r\nPer gli antifascisti e per i libertari è invece un'opportunità per mettere al centro una memoria che, nel rispetto di chi allora dovette lasciare le proprie case, prendendo la via dell'esilio, sappia cogliere tutto il male profondo che si radica e cresce di fronte ad ogni linea di frontiera, ad ogni spazio diviso da filo spinato, ad ogni bandiera che divida “noi” e “loro”. Chiunque essi siano.\r\n\r\nSino a poco tempo fa le fucilazioni e successivo seppellimento nelle foibe, le cavità tipiche del Carso, era un cavallo di battaglia delle destre, che liquidavano le ultime convulse fasi della seconda guerra mondiale tra Trieste, l'Istria e la costa Dalmata, come pulizia etnica nei confronti delle popolazioni di lingua italiana che vivevano in quelle zone.\r\nOggi gli argomenti dei fascisti li usano tutti. Il dramma delle popolazioni giuliano-dalmata fu scatenato «da un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica». Queste parole le ha pronunciate nel 2007 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della “giornata del ricordo”, ma, non per caso, vennero condivise in modo bipartisan dalla destra e dalla sinistra parlamentari. Queste frasi vennero pronunciate alla foiba di Bazovizza, chiusa da una colata di cemento, sì che le richieste degli storici di potervi accedere per verificare quanti morti vi fossero dentro, è stata seppellita dalla retorica nazionalista.\r\nIl dramma del “confine orientale” ha radici lontane. Dopo la prima guerra mondiale, l'Italia si sedette da vincitrice al tavolo delle trattative. Il trattato di Rapallo, che perfezionò le condizioni stabilite durante la conferenza di Versailles, sancì l'annessione all'Italia di Trento, Trieste, Istria, e Dalmazia. Luoghi dove almeno un milione di persone parlavano lingue diverse dall'italiano, ma vennero obbligate a parlarlo in tutte le situazioni pubbliche e, soprattutto, a scuola. Oltre cinquantamila persone lasciarono Trieste dopo l'annessione: funzionari dell'impero austroungarico o semplici cittadini di lingua austriaca o slovena, per i quali non c'erano prospettive di vita nella Trieste “italiana”. Una città poliglotta e vivace stava smarrendo la propria peculiarità di luogo di incontro e intreccio di culture diverse.\r\nIl fascismo accentuò la repressione nei confronti delle popolazioni di lingua slovena e croata, l'occupazione tedesca e italiana della Jugoslavia fu accompagnata da atrocità indelebili. Questa non è una giustificazione di quanto accadde, ma più banalmente la restituzione di un contesto di guerra durissimo. Nella seconda guerra mondiale in Jugoslavia morirono un milione di persone, altrettante persero la vita nell'Italia del Nord.\r\nNelle fucilazioni dei partigiani titoisti caddero molti fascisti, anche se i gerarchi più importanti fecero in tempo a trovare scampo a Trieste. Caddero anche molte persone le cui collusioni dirette con il fascismo erano molto più impalpabili. L'equiparazione tra fascismo e italianità, perseguita con forza dal regime mussoliniano, costerà molto cara a chi, in quanto italiano, venne considerato tout court fascista. Oggi gli storici concordano sul fatto che le cifre reali sugli infoibati sono molto lontane da quelle proposte dalla retorica nazionalista, ma per noi anche uno solo sarebbe troppo. Sloveno, italiano, croato che sia.\r\n\r\nPiù significativo fu invece l'esodo dall'Istria e dalle coste dalmate. Città come Pola e Zara persero oltre il 80% della popolazione. Accolti bene dalle popolazioni più vicine, vennero trattati con disprezzo ed odio altrove. Ad Ancona vennero accolti a sputi e trattati da fascisti in fuga. Qui a Torino erano guardati con diffidenza. Per la gente comune, con involontaria, ma non meno feroce ironia, erano “gli slavi”.\r\n\r\nLa radice del male, oggi come allora, è nel nazionalismo che divide, separa, spezza.\r\n\r\nA ciascuno di noi il compito di combattere il fascismo oggi. I profughi di altre guerre, di altri luoghi sono lo spauracchio con il quale i fascisti del nuovo millennio, provano a dar gambe alla guerra tra i poveri, all'odio verso i diversi, alla chiusura identitaria.\r\nRicordare oggi le vicende del confine orientale, un confine spostato tante volte nel sangue, significa confrontarsi con la pratica di una verità, che riconoscendo le vittime e il contesto di quelle vicende, ci insegna che solo un'umanità senza frontiere può mettere la parola fine ad orrori che, ogni giorno si ripetono ad ogni latitudine. In nome di un dio, di una nazione, di una frontiera fatta di nulla.\r\n\r\nNe abbiamo parlato con Claudio Venza, docente di storia all'università di Trieste, anarchico e antifascista.\r\n\r\nAscolta la diretta realizzata da Anarres:\r\n\r\n2016-02-05-venza-foibe\r\n\r\nDi seguito una scheda sull'esodo istriano e un'intervista a Gloria Nemec, sulla memoria dell’esodo istriano e dei “rimasti”. Entrambi i pezzi usciranno sul settimanale anarchico Umanità Nova\r\n\r\nLe tappe dell’esodo istriano (1943-1956)\r\n\r\nI numeri dei profughi italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia hanno costituito un cavallo di battaglia per tutti coloro che hanno presentato pubblicamente il fatto storico, in particolare per chi ha speculato su questo distacco doloroso per fini nazionalistici e revanschisti. La rivincita (revanche) è stata invocata a più riprese da chi si illudeva di una possibile guerra tra Italia e Jugoslavia e poi tra Occidente e Oriente, un conflitto in cui Trieste avrebbe dovuto essere il pretesto, il bottino e il perno.\r\n\r\nLe prime stime si aggiravano su poco più di 200.000 unità. Poi il livello è stato portato a 350.000 da diversi sostenitori (come padre Flaminio Rocchi). Sul piano di una lettura dell’esodo in versione anticomunista e antislava, anche i numeri degli “infoibati” venivano gonfiati fino a parlare, senza la minima prova, di “ventimila italiani massacrati in quanto tali”. La cifra più attendibile dell’esodo, in conseguenza di recenti ricerche d’archivio, si aggira sulle 300.000 persone emigrate verso l’Italia.\r\n\r\nIn realtà si pone un problema metodologico di notevole significato storico e politico: come stabilire l’italianità certa quando in Istria, ma non solo, le ascendenze, la lingua d’uso, i cognomi sono cambiati molto di frequente ? In effetti la popolazione si mescolava, e si mescola, al di là di proclamate barriere nazionali e linguistiche. Si tenga conto che l’identità prevalente ai giorni nostri è quella “istriana”, una miscela di italiano-sloveno-croato consolidata nel corso del tempo.\r\n\r\nLa prima fase della fuga dalle campagne istriane di persone di cultura prevalentemente italiana (dopo un ventennio di un regime fascista fautore di una martellante snazionalizzazione ai danni della popolazione slava) si registra dopo l’8 settembre 1943, la “capitolazione” dell’Italia e la conseguente fuga di persone e gruppi particolarmente esposti sul piano politico, nazionale e/o della lotta di classe, diretta in particolare contro i proprietari terrieri. Prima, e a seguito, dei Trattati di pace si registrano circa tre anni di possibili opzioni dei soggetti che decidono di spostarsi in Italia. Questo flusso interessa diverse decine di migliaia di persone timorose del nuovo corso politico che, in teoria, ruota attorno ai “poteri popolari”, organismi controllati di fatto dalla Lega dei Comunisti, il vero detentore del potere istituzionale.\r\n\r\nSono segnalati, e confermati da ispezioni del partito a livello centrale, molti casi di abusi per ostacolare la libera scelta dell’opzione filo italiana. Si riaprono, anche su pressioni diplomatiche, i termini e nel 1950-51 si assiste ad una nuova ondata di esuli verso l’Italia. In questo frangente anche diversi militanti comunisti filostaliniani cercano di uscire dallo stato jugoslavo dove i titoisti esercitano un controllo e una repressione fortissimi verso gli ex-compagni sospettati di cominformismo.\r\n\r\nTalvolta le uscite dalla Jugoslavia sono rese difficili dalle professioni qualificate dei richiedenti che sono preziose per un paese distrutto da una guerra devastante con circa un milione di morti. Ad esempio, ai medici e agli artigiani riesce difficile ottenere il consenso all’espatrio. Poiché sembrava che il flusso stesse spopolando le stesse campagne, il potere jugoslavo trova modi e forme per scoraggiare l’esodo di utili produttori agricoli.\r\n\r\nNell’Istria slovena, dopo il memorandum di Londra del 1954 (che pone fine al Territorio Libero di Trieste e quindi assegna la Zona B, nel nord dell’Istria, alla Jugoslavia), si alimenta una nuova corrente di un esodo che termina, più o meno, nel 1956. Questo flusso non raggiunge i numeri impressionanti che avevano svuotato di fatto città importanti come Pola e Zara con l’esodo dell’80-90 % dei residenti.\r\n\r\nI circa 300.000 profughi saranno accolti in più di 100 campi più o meno improvvisati, sparsi per il territorio italiano, in attesa della costruzione di appositi borghi o dell’ulteriore emigrazione di varie migliaia verso mete d’oltremare, come il Nord America, l’Argentina, l’Australia.\r\n\r\nDa più parti si evoca una “diaspora” istriana assumendo la definizione, però molto più pregnante, della dispersione degli ebrei in età moderna e contemporanea. Ad ogni modo va ricordato che buona parte dei profughi non apparteneva ai ceti dirigenti o privilegiati, compromessi col fascismo che fuse in un’unica immagine pubblica l’italiano e il fascista.\r\n\r\nLa dittatura contribuì così a dirigere la prevedibile resa dei conti dopo il 1945. In essa gli elementi nazionali e quelli di classe risultarono spesso confusi e comunque portatori di gravi conseguenze sul piano dei destini collettivi.\r\n\r\nClaudio Venza\r\n\r\n*****\r\n\r\nLa memoria dell’esodo istriano\r\nClaudio Venza, docente di storia all’Università di Trieste, ha intervistato per il settimanale Umanità Nova, una studiosa di storia sociale, Gloria Nemec, sulla memoria dell’esodo istriano e dei “rimasti”.\r\nVi proponiamo di seguito l’intervista.\r\n\r\n1. Come ti sei avvicinata alla storia dell’esodo dei giuliano-dalmati?\r\n\r\nDa studiosa di storia sociale, ho lavorato sul campo dei processi collettivi e di formazione delle memorie nella zona alto-adriatica, in particolar modo nel secondo dopoguerra. Dove si poteva, ho privilegiato l’uso delle fonti orali, delle memorie autobiografiche e familiari, nell’ambito di progetti grandi e piccoli, internazionali e locali. Il fatto che Trieste fosse divenuta “la più grande città istriana” a seguito dell’esodo dei giuliano dalmati, non mi sembrava un fatto irrilevante: il carico di memorie dolorose e conflittuali aveva connotato non poco la città, anche se sino ai primi anni ’90 la storiografia aveva fatto un uso limitatissimo delle memorie dei protagonisti. La raccolta di testimonianze degli esuli da Grisignana d’Istria che ha prodotto Un paese perfetto (1998) ha fatto un po’ da apripista ad altre indagini con fonti orali, mie e di altri. Per me era importante ricostruire memorie lunghe – dal fascismo al definitivo sradicamento e inserimento nella società triestina - attraverso le storie di famiglie contadine di una piccola comunità. Mi interessava entrare in un mondo di mentalità, valori, cultura materiale e linguaggi per capire meglio la crisi collettiva che aveva comportato l’abbandono di massa del luogo d’origine. Molte narrazioni pubbliche riferite all’esodo si focalizzano invece sul breve periodo 1943-45 come se nulla fosse successo prima e nulla dopo.\r\n\r\n2. Che tipologia di persone hai incontrato nelle tue ricerche?\r\n\r\nUn po’ di tutti i tipi. A Trieste ho intervistato soprattutto esuli dalla Zona B, e soprattutto quella specifica tipologia istriana di coltivatori diretti, su proprietà medio-piccole e residenti nelle cittadine. La gran parte dei testimoni sottolineava un’appartenenza urbana-rurale che credo sia specifico elemento costitutivo delle identità culturali degli italiani d’Istria. Molti lavoravano la loro terra “senza servi né padroni” come ha scritto Guido Miglia e si definivano agricoltori ma non contadini perché vivevano nel perimetro urbano. Si percepivano come cittadini occupati in campagna, si cambiavano finito il lavoro per presentarsi con “aspetto civile”, frequentare la piazza, il caffè, l’osteria, dove si ritrovavano gli operatori comunali, gli artigiani, i bottegai. Su quel perimetro spesso si giocava un confronto di lungo periodo tra mondo latino e slavo: nazionale, economico e culturale, secondo una miriade di variabili, dati i profondi fenomeni di ibridismo e le radici intrecciate di molte famiglie. E’ chiaro che il ventennio fascista e i processi di snazionalizzazione degli alloglotti (non parlanti l’italiano come lingua d’uso) rafforzarono per gli italiani delle cittadine il senso della supremazia storica e favorirono una rappresentazione quasi mitica dell’italianità di frontiera. Si affermò quel nesso indissolubile tra fascismo e italianità che si sarebbe ritorto crudelmente a danno degli italiani.\r\nTra le comunità italiane di rimasti in Istria ho incontrato uomini e donne di tutti i tipi, ovviamente di età adeguata perché chiedevo loro di raccontarmi le storie familiari tra guerra, esodo e dopoguerra. Ho intervistato contadini, operai, pescatori e insegnanti, illetterati e laureati, persone coinvolte nella costruzione dei poteri popolari e persone che li subirono, nell’intento di ricostruire quella pluralità dinamica di storie che è tratto fondamentale della realtà istriana, spesso oscurato dall’univoca definizione di “rimasti”. L’ascolto delle storie di vita insegna la complessità.\r\n\r\n3. Come vedono e giudicano oggi quell’evento lontano?\r\n\r\nL’esodo fu una crisi comunitaria e una profonda lacerazione: la nostalgia per un mondo scomparso e idealizzato è un tratto comune nella memoria di esuli e rimasti. Fu un lutto complicato da elaborare nel dopoguerra, mentre si imponevano travagliati percorsi di integrazione o di adattamento al nuovo contesto jugoslavo.\r\n\r\n4. Sino a che punto la memoria degli esuli trasfigura la realtà storica secondo un paradigma che è stato definito “vittimistico”?\r\n\r\nC’è stato un buco nero nella memoria europea del dopoguerra: quello delle migrazioni forzate e della semplificazione etnica che ne conseguì. Si stima che circa venti milioni di persone furono variamente obbligate a trasferirsi, le loro esperienze e memorie rimasero escluse dalla formazione di una memoria collettiva nel corso dei processi di ristabilizzazione post-bellica. E’ chiaro che il paradigma risentito-vittimistico ha un suo senso storico, come compare dalle ultime generazioni di ricerche sui trasferimenti di popolazioni europee. La storia orale ha avuto un ruolo decisivo nel riportare alla luce queste vicende. E siccome i traumi si ereditano, anche le generazioni successive si sono fatte carico della memoria di un evento accaduto molto tempo prima del quale il resto è stato conseguenza.\r\n\r\nGloria Nemec ha insegnato Storia sociale all’Università di Trieste. Da decenni conduce un lavoro sulle fonti orali. Ha pubblicato: Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio. Grisignana d’Istria (1930-1960), Gorizia, LEG, 2015; Nascita di una minoranza. Istria 1947-1965. Storia e memoria degli italiani rimasti nell’area istro-quarnerina, Fiume-Trieste-Rovigno, 2012; Dopo venuti a Trieste. Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine, Trieste-Merano, Circolo “Istria”- ed. Alphabeta, 2015.","5 Febbraio 2016","2018-10-17 22:59:24","http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2016/02/esuli_istriani-200x110.jpg","Foibe, esodo, nazionalismi",1454691319,[327,328,62,329,202,330,331],"http://radioblackout.org/tag/corteo-antifascista/","http://radioblackout.org/tag/fascisti/","http://radioblackout.org/tag/giorno-della-memoria/","http://radioblackout.org/tag/vallette/","http://radioblackout.org/tag/villaggio-santa-caterina/",[35,267,15,275,27,333,277],"vallette",{"post_content":335},{"matched_tokens":336,"snippet":337,"value":338},[66],"un folto gruppo di esuli \u003Cmark>istria\u003C/mark>ni e dalmati. Per i fascisti","“Nazionalismo: cancro dei popoli”. Questo sarà uno degli striscioni del corteo antifascista di domenica 7 febbraio alle Vallette. Forse basterebbe per dare il senso dell'iniziativa. Ovviamente non basta ma vale la pena ricordare che l'essenziale è tutto lì. Il corteo è promosso dai “Soliti ragazzi del quartiere” e da altri antifascisti torinesi, che quest'anno hanno voluto fosse il culmine di una settimana di informazione e lotta. I fascisti hanno indetto un corteo presso il villaggio Santa Caterina, la zona di case popolari che dagli anni Cinquanta ospita un folto gruppo di esuli \u003Cmark>istria\u003C/mark>ni e dalmati. Per i fascisti è un'occasione per lucidare le armi della retorica nazionalista, facendo leva sulla memoria dolorosa dei profughi e dei loro discendenti, che presero la via dell'esilio tra il 1943 e il 1956.\r\nPer gli antifascisti e per i libertari è invece un'opportunità per mettere al centro una memoria che, nel rispetto di chi allora dovette lasciare le proprie case, prendendo la via dell'esilio, sappia cogliere tutto il male profondo che si radica e cresce di fronte ad ogni linea di frontiera, ad ogni spazio diviso da filo spinato, ad ogni bandiera che divida “noi” e “loro”. Chiunque essi siano.\r\n\r\nSino a poco tempo fa le fucilazioni e successivo seppellimento nelle foibe, le cavità tipiche del Carso, era un cavallo di battaglia delle destre, che liquidavano le ultime convulse fasi della seconda guerra mondiale tra Trieste, l'Istria e la costa Dalmata, come pulizia etnica nei confronti delle popolazioni di lingua italiana che vivevano in quelle zone.\r\nOggi gli argomenti dei fascisti li usano tutti. Il dramma delle popolazioni giuliano-dalmata fu scatenato «da un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica». Queste parole le ha pronunciate nel 2007 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della “giornata del ricordo”, ma, non per caso, vennero condivise in modo bipartisan dalla destra e dalla sinistra parlamentari. Queste frasi vennero pronunciate alla foiba di Bazovizza, chiusa da una colata di cemento, sì che le richieste degli storici di potervi accedere per verificare quanti morti vi fossero dentro, è stata seppellita dalla retorica nazionalista.\r\nIl dramma del “confine orientale” ha radici lontane. Dopo la prima guerra mondiale, l'Italia si sedette da vincitrice al tavolo delle trattative. Il trattato di Rapallo, che perfezionò le condizioni stabilite durante la conferenza di Versailles, sancì l'annessione all'Italia di Trento, Trieste, \u003Cmark>Istria\u003C/mark>, e Dalmazia. Luoghi dove almeno un milione di persone parlavano lingue diverse dall'italiano, ma vennero obbligate a parlarlo in tutte le situazioni pubbliche e, soprattutto, a scuola. Oltre cinquantamila persone lasciarono Trieste dopo l'annessione: funzionari dell'impero austroungarico o semplici cittadini di lingua austriaca o slovena, per i quali non c'erano prospettive di vita nella Trieste “italiana”. Una città poliglotta e vivace stava smarrendo la propria peculiarità di luogo di incontro e intreccio di culture diverse.\r\nIl fascismo accentuò la repressione nei confronti delle popolazioni di lingua slovena e croata, l'occupazione tedesca e italiana della Jugoslavia fu accompagnata da atrocità indelebili. Questa non è una giustificazione di quanto accadde, ma più banalmente la restituzione di un contesto di guerra durissimo. Nella seconda guerra mondiale in Jugoslavia morirono un milione di persone, altrettante persero la vita nell'Italia del Nord.\r\nNelle fucilazioni dei partigiani titoisti caddero molti fascisti, anche se i gerarchi più importanti fecero in tempo a trovare scampo a Trieste. Caddero anche molte persone le cui collusioni dirette con il fascismo erano molto più impalpabili. L'equiparazione tra fascismo e italianità, perseguita con forza dal regime mussoliniano, costerà molto cara a chi, in quanto italiano, venne considerato tout court fascista. Oggi gli storici concordano sul fatto che le cifre reali sugli infoibati sono molto lontane da quelle proposte dalla retorica nazionalista, ma per noi anche uno solo sarebbe troppo. Sloveno, italiano, croato che sia.\r\n\r\nPiù significativo fu invece l'esodo dall'Istria e dalle coste dalmate. Città come Pola e Zara persero oltre il 80% della popolazione. Accolti bene dalle popolazioni più vicine, vennero trattati con disprezzo ed odio altrove. Ad Ancona vennero accolti a sputi e trattati da fascisti in fuga. Qui a Torino erano guardati con diffidenza. Per la gente comune, con involontaria, ma non meno feroce ironia, erano “gli slavi”.\r\n\r\nLa radice del male, oggi come allora, è nel nazionalismo che divide, separa, spezza.\r\n\r\nA ciascuno di noi il compito di combattere il fascismo oggi. I profughi di altre guerre, di altri luoghi sono lo spauracchio con il quale i fascisti del nuovo millennio, provano a dar gambe alla guerra tra i poveri, all'odio verso i diversi, alla chiusura identitaria.\r\nRicordare oggi le vicende del confine orientale, un confine spostato tante volte nel sangue, significa confrontarsi con la pratica di una verità, che riconoscendo le vittime e il contesto di quelle vicende, ci insegna che solo un'umanità senza frontiere può mettere la parola fine ad orrori che, ogni giorno si ripetono ad ogni latitudine. In nome di un dio, di una nazione, di una frontiera fatta di nulla.\r\n\r\nNe abbiamo parlato con Claudio Venza, docente di storia all'università di Trieste, anarchico e antifascista.\r\n\r\nAscolta la diretta realizzata da Anarres:\r\n\r\n2016-02-05-venza-foibe\r\n\r\nDi seguito una scheda sull'esodo \u003Cmark>istria\u003C/mark>no e un'intervista a Gloria Nemec, sulla memoria dell’esodo \u003Cmark>istria\u003C/mark>no e dei “rimasti”. Entrambi i pezzi usciranno sul settimanale anarchico Umanità Nova\r\n\r\nLe tappe dell’esodo \u003Cmark>istria\u003C/mark>no (1943-1956)\r\n\r\nI numeri dei profughi italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia hanno costituito un cavallo di battaglia per tutti coloro che hanno presentato pubblicamente il fatto storico, in particolare per chi ha speculato su questo distacco doloroso per fini nazionalistici e revanschisti. La rivincita (revanche) è stata invocata a più riprese da chi si illudeva di una possibile guerra tra Italia e Jugoslavia e poi tra Occidente e Oriente, un conflitto in cui Trieste avrebbe dovuto essere il pretesto, il bottino e il perno.\r\n\r\nLe prime stime si aggiravano su poco più di 200.000 unità. Poi il livello è stato portato a 350.000 da diversi sostenitori (come padre Flaminio Rocchi). Sul piano di una lettura dell’esodo in versione anticomunista e antislava, anche i numeri degli “infoibati” venivano gonfiati fino a parlare, senza la minima prova, di “ventimila italiani massacrati in quanto tali”. La cifra più attendibile dell’esodo, in conseguenza di recenti ricerche d’archivio, si aggira sulle 300.000 persone emigrate verso l’Italia.\r\n\r\nIn realtà si pone un problema metodologico di notevole significato storico e politico: come stabilire l’italianità certa quando in \u003Cmark>Istria\u003C/mark>, ma non solo, le ascendenze, la lingua d’uso, i cognomi sono cambiati molto di frequente ? In effetti la popolazione si mescolava, e si mescola, al di là di proclamate barriere nazionali e linguistiche. Si tenga conto che l’identità prevalente ai giorni nostri è quella “\u003Cmark>istria\u003C/mark>na”, una miscela di italiano-sloveno-croato consolidata nel corso del tempo.\r\n\r\nLa prima fase della fuga dalle campagne \u003Cmark>istria\u003C/mark>ne di persone di cultura prevalentemente italiana (dopo un ventennio di un regime fascista fautore di una martellante snazionalizzazione ai danni della popolazione slava) si registra dopo l’8 settembre 1943, la “capitolazione” dell’Italia e la conseguente fuga di persone e gruppi particolarmente esposti sul piano politico, nazionale e/o della lotta di classe, diretta in particolare contro i proprietari terrieri. Prima, e a seguito, dei Trattati di pace si registrano circa tre anni di possibili opzioni dei soggetti che decidono di spostarsi in Italia. Questo flusso interessa diverse decine di migliaia di persone timorose del nuovo corso politico che, in teoria, ruota attorno ai “poteri popolari”, organismi controllati di fatto dalla Lega dei Comunisti, il vero detentore del potere istituzionale.\r\n\r\nSono segnalati, e confermati da ispezioni del partito a livello centrale, molti casi di abusi per ostacolare la libera scelta dell’opzione filo italiana. Si riaprono, anche su pressioni diplomatiche, i termini e nel 1950-51 si assiste ad una nuova ondata di esuli verso l’Italia. In questo frangente anche diversi militanti comunisti filostaliniani cercano di uscire dallo stato jugoslavo dove i titoisti esercitano un controllo e una repressione fortissimi verso gli ex-compagni sospettati di cominformismo.\r\n\r\nTalvolta le uscite dalla Jugoslavia sono rese difficili dalle professioni qualificate dei richiedenti che sono preziose per un paese distrutto da una guerra devastante con circa un milione di morti. Ad esempio, ai medici e agli artigiani riesce difficile ottenere il consenso all’espatrio. Poiché sembrava che il flusso stesse spopolando le stesse campagne, il potere jugoslavo trova modi e forme per scoraggiare l’esodo di utili produttori agricoli.\r\n\r\nNell’Istria slovena, dopo il memorandum di Londra del 1954 (che pone fine al Territorio Libero di Trieste e quindi assegna la Zona B, nel nord dell’Istria, alla Jugoslavia), si alimenta una nuova corrente di un esodo che termina, più o meno, nel 1956. Questo flusso non raggiunge i numeri impressionanti che avevano svuotato di fatto città importanti come Pola e Zara con l’esodo dell’80-90 % dei residenti.\r\n\r\nI circa 300.000 profughi saranno accolti in più di 100 campi più o meno improvvisati, sparsi per il territorio italiano, in attesa della costruzione di appositi borghi o dell’ulteriore emigrazione di varie migliaia verso mete d’oltremare, come il Nord America, l’Argentina, l’Australia.\r\n\r\nDa più parti si evoca una “diaspora” \u003Cmark>istria\u003C/mark>na assumendo la definizione, però molto più pregnante, della dispersione degli ebrei in età moderna e contemporanea. Ad ogni modo va ricordato che buona parte dei profughi non apparteneva ai ceti dirigenti o privilegiati, compromessi col fascismo che fuse in un’unica immagine pubblica l’italiano e il fascista.\r\n\r\nLa dittatura contribuì così a dirigere la prevedibile resa dei conti dopo il 1945. In essa gli elementi nazionali e quelli di classe risultarono spesso confusi e comunque portatori di gravi conseguenze sul piano dei destini collettivi.\r\n\r\nClaudio Venza\r\n\r\n*****\r\n\r\nLa memoria dell’esodo \u003Cmark>istria\u003C/mark>no\r\nClaudio Venza, docente di storia all’Università di Trieste, ha intervistato per il settimanale Umanità Nova, una studiosa di storia sociale, Gloria Nemec, sulla memoria dell’esodo \u003Cmark>istria\u003C/mark>no e dei “rimasti”.\r\nVi proponiamo di seguito l’intervista.\r\n\r\n1. Come ti sei avvicinata alla storia dell’esodo dei giuliano-dalmati?\r\n\r\nDa studiosa di storia sociale, ho lavorato sul campo dei processi collettivi e di formazione delle memorie nella zona alto-adriatica, in particolar modo nel secondo dopoguerra. Dove si poteva, ho privilegiato l’uso delle fonti orali, delle memorie autobiografiche e familiari, nell’ambito di progetti grandi e piccoli, internazionali e locali. Il fatto che Trieste fosse divenuta “la più grande città \u003Cmark>istria\u003C/mark>na” a seguito dell’esodo dei giuliano dalmati, non mi sembrava un fatto irrilevante: il carico di memorie dolorose e conflittuali aveva connotato non poco la città, anche se sino ai primi anni ’90 la storiografia aveva fatto un uso limitatissimo delle memorie dei protagonisti. La raccolta di testimonianze degli esuli da Grisignana d’Istria che ha prodotto Un paese perfetto (1998) ha fatto un po’ da apripista ad altre indagini con fonti orali, mie e di altri. Per me era importante ricostruire memorie lunghe – dal fascismo al definitivo sradicamento e inserimento nella società triestina - attraverso le storie di famiglie contadine di una piccola comunità. Mi interessava entrare in un mondo di mentalità, valori, cultura materiale e linguaggi per capire meglio la crisi collettiva che aveva comportato l’abbandono di massa del luogo d’origine. Molte narrazioni pubbliche riferite all’esodo si focalizzano invece sul breve periodo 1943-45 come se nulla fosse successo prima e nulla dopo.\r\n\r\n2. Che tipologia di persone hai incontrato nelle tue ricerche?\r\n\r\nUn po’ di tutti i tipi. A Trieste ho intervistato soprattutto esuli dalla Zona B, e soprattutto quella specifica tipologia \u003Cmark>istria\u003C/mark>na di coltivatori diretti, su proprietà medio-piccole e residenti nelle cittadine. La gran parte dei testimoni sottolineava un’appartenenza urbana-rurale che credo sia specifico elemento costitutivo delle identità culturali degli italiani d’Istria. Molti lavoravano la loro terra “senza servi né padroni” come ha scritto Guido Miglia e si definivano agricoltori ma non contadini perché vivevano nel perimetro urbano. Si percepivano come cittadini occupati in campagna, si cambiavano finito il lavoro per presentarsi con “aspetto civile”, frequentare la piazza, il caffè, l’osteria, dove si ritrovavano gli operatori comunali, gli artigiani, i bottegai. Su quel perimetro spesso si giocava un confronto di lungo periodo tra mondo latino e slavo: nazionale, economico e culturale, secondo una miriade di variabili, dati i profondi fenomeni di ibridismo e le radici intrecciate di molte famiglie. E’ chiaro che il ventennio fascista e i processi di snazionalizzazione degli alloglotti (non parlanti l’italiano come lingua d’uso) rafforzarono per gli italiani delle cittadine il senso della supremazia storica e favorirono una rappresentazione quasi mitica dell’italianità di frontiera. Si affermò quel nesso indissolubile tra fascismo e italianità che si sarebbe ritorto crudelmente a danno degli italiani.\r\nTra le comunità italiane di rimasti in \u003Cmark>Istria\u003C/mark> ho incontrato uomini e donne di tutti i tipi, ovviamente di età adeguata perché chiedevo loro di raccontarmi le storie familiari tra guerra, esodo e dopoguerra. Ho intervistato contadini, operai, pescatori e insegnanti, illetterati e laureati, persone coinvolte nella costruzione dei poteri popolari e persone che li subirono, nell’intento di ricostruire quella pluralità dinamica di storie che è tratto fondamentale della realtà \u003Cmark>istria\u003C/mark>na, spesso oscurato dall’univoca definizione di “rimasti”. L’ascolto delle storie di vita insegna la complessità.\r\n\r\n3. Come vedono e giudicano oggi quell’evento lontano?\r\n\r\nL’esodo fu una crisi comunitaria e una profonda lacerazione: la nostalgia per un mondo scomparso e idealizzato è un tratto comune nella memoria di esuli e rimasti. Fu un lutto complicato da elaborare nel dopoguerra, mentre si imponevano travagliati percorsi di integrazione o di adattamento al nuovo contesto jugoslavo.\r\n\r\n4. Sino a che punto la memoria degli esuli trasfigura la realtà storica secondo un paradigma che è stato definito “vittimistico”?\r\n\r\nC’è stato un buco nero nella memoria europea del dopoguerra: quello delle migrazioni forzate e della semplificazione etnica che ne conseguì. Si stima che circa venti milioni di persone furono variamente obbligate a trasferirsi, le loro esperienze e memorie rimasero escluse dalla formazione di una memoria collettiva nel corso dei processi di ristabilizzazione post-bellica. E’ chiaro che il paradigma risentito-vittimistico ha un suo senso storico, come compare dalle ultime generazioni di ricerche sui trasferimenti di popolazioni europee. La storia orale ha avuto un ruolo decisivo nel riportare alla luce queste vicende. E siccome i traumi si ereditano, anche le generazioni successive si sono fatte carico della memoria di un evento accaduto molto tempo prima del quale il resto è stato conseguenza.\r\n\r\nGloria Nemec ha insegnato Storia sociale all’Università di Trieste. Da decenni conduce un lavoro sulle fonti orali. Ha pubblicato: Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio. Grisignana d’Istria (1930-1960), Gorizia, LEG, 2015; Nascita di una minoranza. \u003Cmark>Istria\u003C/mark> 1947-1965. Storia e memoria degli italiani rimasti nell’area istro-quarnerina, Fiume-Trieste-Rovigno, 2012; Dopo venuti a Trieste. Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine, Trieste-Merano, Circolo “\u003Cmark>Istria”\u003C/mark>- ed. 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I bambini separati dalle bambine, le divise, lo stare sull’attenti, il recitare la preghiera, l’alzarsi in piedi quando entrava l’autorità, lo stare per ore immobili, “composti” nei banchi.\r\nGianni si nutre delle idee e delle esperienze di Celestin Freinet, del nativo canadese Wilfred Peltier, della scuola pedagogica statunitense.\r\nGianni, quando arriva in classe da del tu ai bambini, non li rinchiude nell’aula, li porta fuori a toccare con mano le cose: il fiume, gli alberi, ma anche la realtà sociale, quella dei profughi istriani delle Vallette, quella dei napoletani emigrati in gran numero a Cirié, all’imbocco delle valli di Lanzo.\r\nA Cirié complice una mamma che sapeva riparare le bici, i bambini partono ad esplorare il territorio per capire la cosa più importante: le domande da fare, la curiosità che nasce dall’esperienza, il proprio percorso nella vita. Con le bici Gianni e i suoi bambini arrivano ad invadere la pista dell’aeroporto di Caselle, per vedere come erano fatti gli aerei, con i quali i più fortunati partivano per paesi favolosi, che ai ragazzini della Ciriè operaia erano preclusi. Tante imprese, tanti viaggi, soprattutto viaggi nella realtà sociale, dove si parla di licenziamenti, dove i bambini occupano l’ufficio del sindaco perché a scuola fa freddo.\r\nStorie di frontiera in una scuola che oggi non è più fatta di autorità e disciplina anche grazie ai partigiani dei bambini come Gianni Milano.\r\nOggi Gianni ha settan’anni, i suoi capelli sono diventati bianchi, ma sono rimasti lunghi, come ai tempi in cui si guadagnò il soprannome dispregiativo, ma portato con orgoglio, di “maestro capellone”.\r\nLui non ne parla, ma se date un’occhiata ai libri, alle riviste, alla storia di quegli anni speciali scoprirete che è stato tra i protagonisti della cultura beat nel nostro paese.\r\nQuesto mese Arivista ha pubblicato un’intervista in cui parla della sua tesi sulla pedagogia libertaria.\r\nOggi, con la sua parlantina sciolta e il suo stile da vecchio maestro, lo trovate nei posti dove la gente sceglie di essere protagonista, di alzarsi in piedi, di costruire da se il proprio cammino.\r\nNon di rado lo vedrete volteggiare con la sua bandiera No Tav a Torino e in Valle, o al Balon, dove si mescola con gli anarchici e i senzapatria.\r\nAscolta la lunga chiacchierata con Gianni: [audio:http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2012/12/gianni-milano-def-con-musica.mp3|titles=gianni milano def con musica]\r\n\r\nscarica l'audio","23 Dicembre 2012","2018-10-17 22:11:08","http://radioblackout.org/wp-content/uploads/2012/12/gianni-milano-no-tav-200x110.jpg","Il maestro capellone",1356301555,[355,356,357,358,359],"http://radioblackout.org/tag/anarchici/","http://radioblackout.org/tag/beat/","http://radioblackout.org/tag/pedagogia-libertaria/","http://radioblackout.org/tag/scuola/","http://radioblackout.org/tag/torino/",[361,263,273,362,363],"anarchici","scuola","torino",{"post_content":365},{"matched_tokens":366,"snippet":367,"value":368},[66],"realtà sociale, quella dei profughi \u003Cmark>istria\u003C/mark>ni delle Vallette, quella dei napoletani emigrati","A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta un giovane maestro viene allontanato dall’insegnamento per cinque lunghi anni. 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