
Paul Thomas Anderson è un regista americano molto attento alla feroce storia a cui appartiene, nata da una colonizzazione prevaricatrice e fondata sul God in cui credono stampigliato sui dollari. Ha scatenato i demoni più orridi dell’America, pur di dare un quadro preciso, disincantato e impietoso degli Usa: dal più vieto capitalismo de Il petroliere al militarismo che si respira in The Master; dalla fine della liberazione sessuale di Boogie Nights al razzismo condito dalla descrizione della società americana nell’atmosfera di Vizio di forma già tratto da Pynchon…
Su questo poliedrico ma omogeneo corpus registico si innesta Una battaglia dopo l’altra, un’altra descrizione di come quel fantastico quindicennio tra Sixties e Seventies – tanto amato da Pynchon e proiettato verso l’emancipazione e la liberazione dal potere fascistoide insito nella società americana (e di conseguenza occidentale) – sia imploso con le presidenze Reagan della prima metà degli anni Ottanta. Palese metafora scanzonata della situazione attuale e del fuoco di paglia delle rivoluzioni, che funzionano come insurrezioni ribelli e poi finiscono impastoiate tra parole d’ordine demenziali e infami nefandezze.
Finisce ancora bene? Mah, giudicate voi: alla fine noi avevamo percezioni diverse sul consuntivo. Di certo anche in questo film sovrasta ogni aspetto l’approccio amaramente ironico, utile per scardinare – almeno sul piano filmico – il Sistema.

