Il paradigma ‘grandi opere’ e il caso MoSE

Scritto dasu 6 Giugno 2014

imagesAll’indomani dell’ennesima operazione anti-corruzione che ha mandato in carcere 35 tra politici e imprenditori del Nord-Est per gli appalti del Mo.S.E. (tra cui il sindaco PD di Venezia Orsini) il ceto politico è preoccupato soprattutto di non veder mettere in disussione il paradigma politico-finanziario delle grandi opere. Eppure Dopo le inchieste su Expo, Tav, fondi Ue e oggi MoSE quello che si delinea è un vero e proprio sistema costruito sui meccanismi della deroga, del commissariamento, delle privatizzazione, dll’eterna emergenza per applicare subito e senza controlli opere faraoniche che distruggono il territorio e arricchiscono i contraenti, riproducendo un meccnismo pervrerso di rapporti tra Politica Istituzionale, Impresa )e talvolta anche la criminalità organizzata).

Ne abbiamo parlato con Paolo Cacciari, giornalista free-lance veneto, autore di un commento sul Manifesto di oggi:

PAolo_cacciari_MOse

Alleghiamo anche un’intervista di 2 giorni fa a Massimo, un compagno di Venezia che commentava ai microfoni della radio (a caldo) i risultati dell’inchiesta e il silenzioso ma pervasivo modello di corruzione diffusa che il MoSe ha portato nella città lagunare:

massimo_venezia_MOse

Qui di seguito, l’articolo di Paolo Cacciari uscito oggi sul Manifesto

Mose bipartisan, ecco l’origine perversa del «partito del fare»

l pro­getto della chiu­sura delle boc­che di porto della Laguna di Vene­zia, il più grande inter­vento di inge­gne­ria civile mai costruito in Ita­lia, è stato il pro­to­tipo delle «grandi opere». In tutto. Nella filo­so­fia emer­gen­zia­li­sta che lo pre­siede — la grande allu­vione del 4 novem­bre 1966 sem­brava giu­sti­fi­care una deci­sione rapida e ras­si­cu­rante, in barba ad ogni esi­genza di appro­fon­di­mento degli studi scientifici.

Nella delega con­cessa al sistema delle imprese pri­vate giu­di­cato dai deci­sori poli­tici il più com­pe­tente ed effi­ciente non solo nella rea­liz­za­zione delle opere, ma anche nella loro idea­zione e pro­get­ta­zione – con­dan­nando le uni­ver­sità, il Cnr e gli organi tec­nici dello stato a fare da sup­porto ser­vente alle imprese. Nella deroga alle pro­ce­dure ordi­na­rie di affi­da­mento, veri­fica e con­trollo delle opere pub­bli­che – date in con­ces­sione ad un unico sog­getto, anti­ci­pando il mec­ca­ni­smo del gene­ral con­tract. Nel gene­roso ricorso al cre­dito ban­ca­rio (a pro­po­sito dei motivi che hanno gene­rato il debito pub­blico!) – pro­ce­dura che poi sarà per­fe­zio­nata con il pro­ject finan­cing.
Il Con­sor­zio Vene­zia Nuova nasce nel 1982 sotto gli auspici di De Miche­lis (Par­te­ci­pa­zioni Sta­tali), Nico­lazzi (Lavori Pub­blici) e Fan­fani (pre­si­dente del Con­si­glio). Com­prende tutte le mag­giori società di engi­nee­ring pub­bli­che e pri­vate, dalla Impre­sit della Fiat (a cui suben­trerà la Man­to­vani) alle Con­dotte d’acqua dell’Iri. E poi: Lodi­giani, Mal­tauro, Impre­gilo fino alle coo­pe­ra­tive emi­liane CCC. Primo pre­si­dente del CVN è Luigi Zanda, pro­ve­niente dalla segre­te­ria del mini­stro Cossiga.

Negli stessi anni nasce anche il Tav e il Ponte dello Stretto di Mes­sina. L’Italia del «fare» — per chi ha perso la memo­ria — nasce allora.
Ma per supe­rare gli evi­denti vizi giu­ri­dici di un’opera affi­data in con­ces­sione a trat­ta­tiva pri­vata e per di più su un «pro­getto pre­li­mi­nare di mas­sima» mai appro­vato dal Con­si­glio Supe­riore dei Lavori Pub­blici, ci fu biso­gno di una legge spe­ciale (legge 798 del 29 novem­bre del 1984). Ad opporsi fu solo il Pri con il mini­stro Bruno Visen­tini, come io stesso rico­no­scevo in un sag­gio di tanti anni fa, Appunti per una sto­ria del Pro­get­tone («Oltre il ponte», n. 17, 1987), in cui defi­nivo l’oggetto della con­ven­zione tra Stato e CVN: «un insieme di opere ancora inde­ter­mi­nate, tutte comun­que assi­cu­rate da una forma di paga­mento a piè di lista».

Nasce così lo stra­po­tere del CVN in città e non solo. Cro­ce­via di smi­sta­mento di ogni genere di appalti, anche quelli non diret­ta­mente affe­renti al Mose. Punto di equi­li­brio degli inte­ressi bipar­ti­san.
A dire il vero un ripen­sa­mento ci fù all’epoca di Tan­gen­to­poli. Con una legge del 1993 (n.527, art. 12, comma 11) si dava man­dato al Governo di «razio­na­liz­zare» le pro­ce­dure di inter­vento a Vene­zia così da «sepa­rare i sog­getti inca­ri­cati della pro­get­ta­zione dai sog­getti cui è affi­data la rea­liz­za­zione» e costi­tuire una agen­zia pub­blica. Inu­tile dire che nulla sostan­zial­mente fu fatto per mutare la situa­zione. Nem­meno quando nel 1998 la Com­mis­sione nazio­nale per la Valu­ta­zione dell’Impatto Ambien­tale dette un parere sostan­zial­mente nega­tivo al progetto.

In soc­corso del Mose giunse la nuova Legge Obiet­tivo di Lunardi-Berlusconi (2002) che ha con­sen­tito ai vari governi, da ultimo quello Prodi con Di Pie­tro mini­stro ai Lavori Pub­blici (con un voto a mag­gio­ranza nel Con­si­glio dei mini­stri), di avo­care a sé le deci­sioni tecnico-progettuali e di appro­vare defi­ni­ti­va­mente il Mose nel 2006. Fu il colpo di gra­zia anche per i movi­menti ambien­ta­li­sti e l’assemblea per­ma­nente con­tro il Mose. Da allora una valanga di massi, cemento e ferro è stata sca­ri­cata sulle boc­che di porto. Il Con­sor­zio Vene­zia Nuova aveva vinto. Ora sap­piamo che sei miliardi di finan­zia­menti diretti, più tutti quelli per le opere com­ple­men­tari di difesa a mare del lito­rale, di con­so­li­da­mento delle rive e delle fon­da­menta, di restauri vari, sono il prezzo con cui il «par­tito del fare» (e del rubare) si è com­prato la città.

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