Akos Rozmann e la fine della musica
“Man meets different difficulties and sufferings through his wandering. These are forces between which a continuous struggle is going on. He cannot control and preside over these forces. He is being tossed up and down, powerless, like snowflakes in the storm: chaotic thoughts and feelings, gladness and suffering, which flow without intermission like a river that has no beginning nor end. All these are the fruits of our own deeds. However, in this life you have the chance to make easier those life wanderings that are to come.”
Akós Rózmann (dalle note dell’introduzione all’esecuzione delle prime Seven Stations, 1984).
Organista della cattedrale di stoccolma, Akos Rozmann è un fantasma, il cui spirito continua a terrorizzare critici e ascoltatori.
Compositore e musicista ben addestrato (La Liszt Academy di Budapest prima e il Royal College di Stoccolma poi), mistico, outsider e infine messaggero dell’infinito travaglio del vivere, ha attraversato dentro spoglie mortali una delle “musiche” più strane di sempre.
Figlio della guerra, Rozmann lascia l’Ungheria con gli scoppi e le morti ancora impresse in occhi e orecchie. Si trasferisce in Svezia, in una piccola stanza nella sacrestia del duomo di Stoccolma. Il suo maestoso organo ad aria accompagnerà Rozmann per il resto della vita. In questi anni la mistica cristiana penetra nel giovane ungherese, plasmandone una indole pessimista, schiacciata sull’inesorabilità del peccato e su una redenzione impossibile.
Come Dante, Rozmann immaginerà per tutta la vita un viaggio nella musica dove il bene e il male si sono fusi in una non univoca materia. Composizione come fatica erculea di clausura e disciplina spirituale attraverso la quale esercitare la propria fede, approfittando di nozioni apprese dal cammino sulla terra. Il risultato discografico di questo monolite sono le 12 stazioni (tolv stationer) di questi 7 dischi che di 20 anni e oltre rappresentano il punto di arrivo, seppur non definitivo. Un opera che inizia nel 1978 e finisce nel 2000, una mezza vita di partiture scritte a matita e corrette con la gomma, limate fino all’inverosimile. Scopre e incide quest’opera perduta (eseguita per intero una volta sola a Stoccolma, incontrando lo shock dell’uditorio) la Editions Mego (Stephen O’Malley who?). Risultato: la più inquietante, ambiziosa presuntuosa e financo incredibile operazione di collage spiritual-spiritico mai realizzato in tema di elettroacustica “non convenzionale”, negli ultimi anni: nella durata (7 dischi, 10 ore di musica), nella strutturazione (le ruote tibetane e i mantra, i cicli, le ascensioni e le discensioni), nell’eccesso (le modalità di trasfigurazione dei singoli elementi sonori); Rozmann pone una seria provocazione per sviscerare la quale ci vorranno anni, mentre l’uomo e il corpo sono già partiti per l’altrove. Scompare nel 2005 dopo aver terminato (forse?) questo lavoro titanico, come un Lama al termine della missione sulla terra.
A questo punto la domanda è legittima: come suonano questi dischi?
Abbandonate ogni razionalità e ogni riferimento a quella che comunemente chiamate musica. Questo è un viaggio negli abissi di un ascolto profondo che trasfigura la materia fisica, ribaltando le vostre sicurezze in fatto di composizione, equilibrio, gamma dinamica. L’esperienza religiosa, come quella della guerra e della morte su larga scala si sono tradotte in voci come ruggiti infernali, pianoforti scie di punti luminosi, scorie ferrose di corde e oggetti metallici percossi sbattuti e processati con l’uso dell’elettronica. Per l’esecuzione solo organo, nastri, monete, chiavi e oggeti quotidiani. Un primitivo impianto digitale per la registrazione e il processing farà il resto. E’ una elettroacustica nera che trasmette segnali da uno dei tanti profondi inferni della modernità, composta con afflato mistico e insieme nichilista, provocatorio e ambiguo, sicuramente determinato ad un qualche scopo ben preciso che però viene sommerso da visioni, rumori, esplosioni, deliri vocali grandguignoleschi.
Viene presentata in forma tangibile la continua tensione dinamica degli opposti partendo dal concetto di bene (dischi 1-5) per trasfiguare nel male (6-7) con implacabile ferocia. Sulle linee pacificate e dronanti intervengono piano piano rumori, scosse, lame su metallo, nastri che sparano le voci dei dannati, qualunque sia questa dannazione. L’ipotesi è che la dannazione sia la vita stessa dell’uomo e che Rozmann lo abbia voluto dipingere in musica come un mandala ricco di dettagli.
Immaginate, per semplificare, un Merzbow pressochè analogico che si cimenta con una sorta di psichedelia rituale dalla quale scolano detriti rugginosi, mentre voci angeliche si mesmerizzano nel ghiaccio per collassare subito dopo nel fuoco; i nastri rallentano, accelerano, sdoppiano, creano il tempo ad uso e consumo del compositore. E’ musique concrete pensata per il maligno o per la sua negazione, è un cammino disperato tra le spine del mal di vivere. Echi, Delay, e una immaginazione talmente vasta da abbracciare kalachackra e l’inferno dantesco, completano un epos folle nella sua glaciale lucidità e varietà. Dal fondo di questo tunnel john cage e olivier messiaen, piere schaffer, Ligeti, Stockausen e perchè no lo Scelsi più mistico insieme a tutta l’oscura schiera degli sperimentatori satanici, affiorano in superficie.
La contemporaneità finalmente vista dai margini, aperta sul tavolo settorio del XX secolo e interpretata da uno degli ultimi mistici. Ascoltando, con calma e dedizione potreste anche scoprire quanto nichilista è questo sentimento chiamato vita e come a volte l’insensatezza domini incontrastata (e in fondo il male dell’inocompresnsibile) nelle oscillazioni di un pendolo tra dolore e noia. Faticoso, estremo o impossibile, ma indispensabile. Ai posteri l’arduo ascolto.