La peste della grande distribuzione
Non tutti i progetti di riqualificazione sono uguali, dal centro alla periferia interessi e prospettive si diversificano, seppur questi processi in diversi tratti (lotta al degrado, militarizzazione) si somiglino.
Sembra che l’amministrazione comunale voglia scomporre la città in più hub diversificati: così San Salvario diviene il quartiere della movida, Porta Palazzo adibito alla foodification, mentre per Lucento la prospettiva è di diventare un enorme discount. Infatti, oltre alla ventina di negozi già presenti, un nuovo Lild è già in cantiere.
Da Fassino all’Appendino la solfa non cambia, in 7 anni sono stati aperti 28 supermercati e altri progetti sono al vaglio. Il Comune trae subito profitto dalla concessione di spazi per la costruzione di centri commerciali che considera opere di interesse pubblico. D’altronde nelle periferie abbandonate il mito dell’occupazione all’interno di queste catene può essere una speranza reale che però cela contratti precari, condizioni di lavoro infime e la chiusura di
piccole botteghe o interi mercati rionali.
La grande distribuzione copre i ¾ delle vendite di cibo in Italia, manipolando il mercato e imponendo prezzi a ribasso su tutta la filiera, a scapito non solo dei produttori, ma anche di chi di fatto crea gli alimenti: terre e animali, il cui valore precipita. Naturalmente questa corsa al ribasso pone i poveri uni contro gli altri, alimentando la ferocia del mercato globale sulla pelle di contadini e agricoltori che spesso divengono schiavi sotto la frusta del caporalato.
I processi di riqualificazione delle periferie attraverso l’apertura di discount e centri commerciali erodono gli spazi liberi e conviviali nei quartieri. Queste cattedrali del consumo sventagliate come luoghi di interesse pubblico sono aree totalmente controllate da privati in cui nessun’altra attività è consentita se non quella dell’acquisto di merci.
I supermercati sono non-luoghi che eliminano gli spazi pubblici, ovvero luoghi standardizzati che rubano terreno a spazi di scambio, svago e confronto disinteressato. Nelle periferie che “non ce la fanno a tirare avanti” l’unica alternativa proposta dalle varie giunte comunali è l’apertura di questi mostri commerciali voltando le spalle alle reali necessità degli abitanti dei quartieri, che siano esse servizi pubblici o spazi liberi dove sperimentare e auto-gestirsi.
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