lo spettro dei rifugiati sulla crisi libanese

Scritto dasu 11 Maggio 2019

Dall’inizio della guerra civile siriana i libanesi hanno assistito a un vero e proprio esodo di profughi verso il proprio Paese. Il Libano è grande come l’Abruzzo, ha una popolazione di quattro milioni e mezzo di persone e ospita un milione e mezzo di siriani che si aggiungono ai 250 mila palestinesi, e alle migliaia di persone arrivate negli ultimi anni da Etiopia, Filippine, Bangladesh e Sri Lanka già presenti sul territorio. Il Libano non ha firmato la convenzione di Ginevra, dunque non riconosce lo status di rifugiato. Assimilare un milione e mezzo di siriani nella società libanese non è pensabile, anche perché il Libano deve fare i conti con una situazione economica che va peggiorando, il 30 per cento dei cittadini vive in condizioni di estrema povertà, in un Paese che stenta a garantire elettricità 24 ore al giorno.

Nel frattempo, il malcontento tra i libanesi continua a crescere e i rifugiati sono spesso additati come la causa principale della tragica situazione economica che sta mettendo in ginocchio l’intero Paese. La pressione per rimandare i rifugiati in Siria è sempre più forte, sempre più frequenti i casi di incendi dolosi negli insediamenti informali.

Il fenomeno migratorio è stato finora regolato dalla discussa legge Kafala, un sistema di controllo diffuso nei paesi del Golfo che permette ai governi di delegare la supervisione e la responsabilità dei migranti a compagnie o privati cittadini, concedendogli una serie di poteri legali. Una volta entrati nel Paese, ai lavoratori viene ritirato il passaporto, la loro permanenza legale è strettamente vincolata al contratto stipulato con la compagnia che li ha ingaggiati, senza il cui permesso la possibilità di movimento è praticamente nulla.

In collegamento dal Libano Estella Carpi, antropologa sociale dell’University College of London, si occupa di migrazione forzata, assistenza umanitaria e politiche dell’identità nel Levante arabo e in Turchia.

 


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