Ucraina. Il fuorigioco dell’Europa
Scritto dainfosu 5 Marzo 2014
La situzione nel risico mortale che si gioca tra Kiev e Sebastopoli, tra Mosca e Washington è oggi in stallo. Tra minacce ed atti concreti Putin ha mostrato le sue carte, dall’altra parte dell’Atlantico gli fa eco l’amministrazione Obama, mentre l’Europa, il cuore immaginario della sanguinosa battaglia condotta in piazza Indipendenza, ribattezzata piazza Europa, resta al palo.
Ne abbiamo parlato con Alessandro Dal Lago, autore dell’editoriale di oggi sul quotidiano “ilmanifesto”.
Ascolta la diretta:
Di seguito il pezzo di Dal Lago
“Che nessuno voglia morire per Kiev è ovvio. E che la nuova «guerra di Crimea» finisca in una bolla di sapone è assai probabile. La decisione di Putin di ritirare le truppe dal confine ucraino dimostra come i russi, lungi dal praticare una pura politica di forza, siano capaci di fare i loro calcoli. Chiarito in via definitiva che non consentiranno mai un passaggio dell’Ucraina alle strette dipendenze di Washington, è possibile che si vada verso un qualche tipo d’accordo, con il passaggio della Crimea alla Russia, dopo un plebiscito, e il riconoscimento di una forma più o meno larvata di autonomia alle regioni russofone dell’Ucraina.
Detto questo, è anche vero che il caso ucraino chiama in causa una questione ben più ampia, e cioè la definizione delle sfere d’influenza reciproche di occidente e Russia. Per chiarire, poniamo per assurdo (come si dice in matematica) che in un futuro più o meno lontano uno stato confinante con gli Usa, che so il Messico o il Canada, stipuli un accordo militare con i russi o i cinesi. È impensabile, ovviamente, ma proprio l’impensabilità è una misura della relazione equivoca che Usa e Europa continuano a praticare con la Russia. Questa è circondata da ogni parte dalla Nato e dalle basi Usa (dalla Turchia all’Asia centrale cinese). Il caso della Georgia nel 2008 ha mostrato sia la volontà dei russi di non subire ingerenze nel Mar Nero e nel Caucaso, sia il velleitarismo occidentale (in particolare di George W. Bush) che aveva suscitato speranze impossibili nei georgiani. Dopo vent’anni di umiliazioni (v. i Balcani), era inevitabile che i russi difendessero la loro zona d’influenza strategica, come gli Usa hanno sempre fatto a casa propria.
Le relazioni internazionali hanno una loro logica, sgradevole quanto si vuole, ma oggettiva (perché basata sulla forza e sull’influenza). Di conseguenza, si rimane allibiti di fronte agli appelli a una sorta di guerra per l’esportazione della democrazia, che si leggono sulla grande stampa, come l’articolo di Bernard-Henri Lévy ieri sul Corriere. A questo pseudo-filosofo esaltato non è bastata la tragedia della Libia, che ha fomentato insieme a Sarkozy. Voleva la guerra in Siria e oggi vorrebbe qualcosa del genere in Ucraina. E questo è tanto più grottesco, quanto più le cancellerie occidentali sanno bene che Putin non ha affatto brutte carte in mano: dal ricatto energetico verso Ucraina ed Europa fino a un’alleanza strategica con la Cina. Putin è stato decisivo nella gestione della crisi in Siria e anche nel favorire la distensione Usa-Iran. È quindi incredibile che la stampa ospiti articoli di falchi che propongono l’intervento della Nato in Ucraina, qualcosa non solo di impensabile, ma contrario a lungo andare agli stessi interessi Usa.
Quanto precede non ha nulla a che fare con un’accettazione a priori della politica interna o estera della Russia. La democrazia di Mosca è quello che è, il regime di un super-oligarca sprezzante verso la libertà d’opinione. Il presidente ucraino fuggito, Yanukovic, è uno dei despoti sanguinari e inetti che Putin usa e getta via in base ai suoi interessi. Ma credere che Tymošenko sia una santa e che le milizie para-naziste che hanno cacciato Yanukovic offrano un gran futuro all’Ucraina non è che delirio alla Bernard-Henri Lévy. Dissolti i fumi della propaganda di entrambe le parti, ciò che resta è l’incapacità dell’occidente di entrare in relazione con i poteri mondiali (nel nostro piccolo, la gestione del caso marò, tra furbizia e tracotanza, dà una perfetta idea dell’incomprensione della realtà delle potenze emergenti).
Chi al momento esce peggio dalla vicenda ucraina è l’Europa. Divisa tra la apparente linea dura Usa e bellicismo Nato, da una parte, e pragmatismo mercantile tedesco, dall’altra, l’Europa strepita, ma è incapace di agire. Poteva aiutare l’Ucraina, sull’orlo del baratro economico, e non l’ha fatto. Priva di testa, un po’ atlantica e un po’ ammiccante all’est, l’Europa fallisce programmaticamente là dove potrebbe assolvere una funzione di ponte tra Usa e stati emergenti, favorendo i negoziati. E quindi i i suoi ruggiti oggi non fanno paura a nessuno.”