Olga e le altre. Dalla violenza in casa alla violenza di Stato
Scritto dainfosu 21 Febbraio 2017
Tante, troppe, le donne che faticano a liberarsi da una relazione violenta. Il ricatto dei figli, la mancanza di un reddito proprio, le minacce di morte rendono difficile riprendersi la propria vita. I tribunali che indagano le vite delle vittime, gli assistenti sociali che scrutano la quotidianità di chi dice no alle botte, agli stupri, alle umiliazioni condiscono il tutto del sapore acre dell’aceto.
Per le migranti senza documenti la strada è una salita ancor più ripida. Per molte il permesso di soggiorno è legato al quello del marito, per tutte le altre, se perdi il lavoro perdi il permesso.
É successo anche ad Olga, badante ucraina, che non è riuscita a trovare un nuovo impiego, dopo la morte della donna anziana di cui si occupava.
Olga non è il suo nome vero, ma la sua storia è lo specchio di quella di tante altre donne, che un giorno bussano alla polizia per denunciare la violenza di quello che per un po’ è stato il proprio compagno. La polizia le ha chiesto i documenti, il permesso, e l’ha subito spedita al CIE di Ponte Galeria a Roma, uno dei quattro rimasti aperti dopo anni di rivolte ed evasioni.
Di oggi la notizia che il governo ha stanziato i soldi per finanziare l’apertura di altri 15 CIE, ora ribattezzati CPR – centri per l’espulsione e per coprire le spese per le deportazioni.
Olga sarebbe dovuta partire oggi: la polizia italiana le aveva prenotato un posto in un volo di sola andata per l’Ucraina. All’ultimo è stata presa la decisione di lasciarla al CIE. Forse l’eco mediatica della sua vicenda ha indotto il ministero dell’Interno a una maggiore prudenza. Forse. Forse è stato solo uno dei tanti inghippi burocratici che ingarbugliano la vita dei migranti.
Olga è una delle tante donne che restano impigliate nella rete delle espulsioni. Una delle tante donne che, oltre ai controlli e agli abusi che investono tutti i senza documenti durante controlli e retate, subiscono violenze in quanto donne. Molestie e stupri nei centri di detenzione sono stati raccontati dalle donne che hanno corso il rischio di raccontare la propria storia. Donne che hanno lottato ed hanno avuto la fortuna di incrociare chi era disposto ed ascoltare e far circolare le loro voci.
Ne abbiamo parlato con una delle attiviste che stanno seguendo la vicenda di Olga.
Ascolta la diretta:
Di seguito la trascrizione di una telefonata con Olga detenuta nel CIE di Ponte Galeria.
A causa di difficoltà di comprensione dell’audio, alcune parti sono mancanti e alcune sono state integrate tra parentesi per facilitare la lettura.
Prima cosa: siccome io sto qui già [per] la seconda volta, no?
[La] prima volta com’è successo?
Io [sono] stata fermata, come tutti. Una ragazza ha accoltellato un ragazzo – non lo so con che cosa, non lo so. Sono venuti i carabinieri e hanno chiesto chi ha visto quello che è successo – perché subito è venuta l’ambulanza che ha preso quel ragazzo, perché lui [era] svenuto, e l’ha portato via.
[Dunque] sono venuti i carabinieri [e hanno chiesto] ‘chi ha visto?’ [alle] persone [presenti se qualcuno aveva visto qualcosa]. Hanno chiesto a tutti ‘puoi dare il numero di telefono, può darsi che serve’, e pure io ho dato [il] mio numero.
[Dopo] una settimana o non so quanti giorni, [sono stata chiamata] dai carabinieri e mi hanno chiesto “[parte mancante] e io ho detto “si” “puoi venire qui con un documento?”. Mi hanno detto che quel ragazzo ha fatto l’intervento e [che lei] con le forbici gli ha fatto un buco nei polmoni – e dunque se potevo andare lì. Io [ho detto] “come? non lo so, non ho documenti, ho solo il passaporto”, [e loro] “va bene, non fa niente”.
Io ho preso il passaporto e sono andata lì ho fatto vedere il passaporto, loro hanno guardato il computer e hanno visto che ho espulsione. Espulsione. Espulsione per cosa io ce l’ho? Espulsione io ce l’ho perché non [parte mancante] il permesso di soggiorno, quando mi è venuto il permesso di soggiorno io sono stata in Ucraina. Sono stata in Ucraina [parte mancante] perché è morto mio padre. E quindi io non [parte mancante] permesso di soggiorno
Quando sono tornata la signora era morta e io non sapevo [????] il permesso di soggiorno e quindi quello di espulsione io avevo.
E allora mi hanno portato qui al CIE, però io sono stata venerdì, sabato e domenica. Lunedì avevo l’udienza io uscita e lunedì mi hanno fatto uscire. Questo è successo due anni fa.
Quindi io avevo il foglio per andare via. Trenta giorni avevo per andare via.
E adesso cos’è successo? Mi ha menato il mio ragazzo, quello che ti ho raccontato sono tornata al mio lavoro e ha cominciato a menarmi il mio ragazzo.
Lui [frase poco comprensibile].
A lui l’hanno fatto uscire, e a me mi hanno chiuso qui.
Questo è tutto.
Io non l’ho denunciato, però loro sono venuti lì. Io ho chiamato da sola, hanno visto tutto, mi hanno portato qui, perché hanno visto che io ho il foglio di via e mi hanno portato qui.
Ora sto qui già dal 18 [gennaio] – un mese. E mi hanno detto che mi rimandano al [mio] Paese.
Mi hanno detto che mi mandano via perché io non devo stare in Italia 5 anni.
Io ho detto, perché, io tutta la mia vita – io ho già quarant’anni, ho passato tutta la mia vita, da quando sono in Italia, ho lavorato. Ho anche aiutato una signora anche senza soldi e senza niente, perché aveva bisogno di me, perché non aveva soldi. Non li aveva e mi ha detto: “ti do l’alloggio e ti do da mangiare perché io non ti posso pagare lo stipendio”. Io ho lavorato da lei e l’ho aiutata.
Prima lavoravo con una signora che ora è morta – perché io sto qui da 11 anni
[parte mancante]
Io ho detto: ma perché una donna che viene qui per lavorare, per aiutare persone. Ma scusa, anzi, e poi quello che prendo di stipendio io lo lascio qui in Italia, perché io pago l’affitto.
Ma perché è così la legge? Perché?
[frase poco chiara]
Io ho detto: meglio morta che qui [nel CIE] – però non voglio andare in Ucraina – io non ho nessuno, non ho casa, non ho niente. Ho detto: datemi [almeno] la possibilità che esco, prendo i miei vestiti, dalla signora lo stipendio. Perché io sto adesso con una signora che sta malata con il cancro.
Ieri io ho chiamato e lei [è stata portata] all’ospedale sant’Andrea, perché ha sentito ‘Ponte Galeria’ [e si è chiesta] che cos’è questo posto?
Io non ho manco preso lo stipendio e non c’è nessuno che mi porta i soldi e che mi porta i miei vestiti.
Io ho chiesto, ho detto ‘ma io così parto?’ e mi hanno risposto ‘parti cosi’. Mi hanno detto ‘cerca qualcuno che ti porta i vestiti’ ma io gli ho detto ‘chi mi porta i vestiti? Nessuno!’
Adesso che c’è io sono stata alla prima udienza, il giudice è stato bravissimo, e voleva che io vado fuori, che io esco però quelli che stanno seduti vicino a lei, quelli dell’ufficio immigrazione. Uno sta seduto vicino al giudice, non so chi è quello, io penso che è dell’ufficio di immigrazione.
Io ho chiesto che vado da sola, e il giudice ha detto che va bene, ma loro hanno detto ‘no, e perché da sola? Noi ti compriamo il biglietto e tu vai’.
Non mi hanno [dato nessuna spiegazione], non mi hanno detto niente, soltanto mi hanno detto “noi ti compriamo il biglietto, perché devi andare da sola?”
In quei giorni tanta gente è stata rimandata al [proprio] Paese [d’origine].
Io assolutamente posso raccontare basta che vado via [dal CIE] perché io non ce la faccio, non ce la faccio proprio e anzi, ho anche paura, non è soltanto che… Perché io non lo so, il giorno [del rimpatrio] è vicino, e io non ci voglio pensare perché ho ancora la pressione alta. E lo zucchero [=glicemia] oggi è a duecentoventi.
Non so, speriamo.
[frase mancante]