“La crisi sociale in Grecia” – Intervista con un compagno di TPTG

“La “recessione economica” globale e la crisi “finanziaria” degli ultimi anni sono solo manifestazioni della crisi permanente della riproduzione del capitale iniziata nei primi anni ’70, vale a dire crisi della riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche. […] Soprattutto in Grecia, la crisi del debito e i programmi di salvataggio che ne derivano non sono nient’altro che enormi processi di devalorizzazione ancora in corso, che mirano alla decomposizione del proletariato e alla distruzione dei capitali meno produttivi.”

Alla luce degli ultimi accordi del governo greco con la Troika, relativi alla seconda revisione del programma di salvataggio del paese, un bilancio su questi 7 anni di crisi sociale greca insieme ad un compagno della rivista Ta Paidia Tis Galarias, che ha recentemente diffuso un documento di analisi dal titolo “The Social Crisis in Greece”.

Partendo da un commento sul lungo periodo di recessione, iniziato con la crisi finanziaria del 2008, siamo giunti – dati alla mano – a commentare la particolarità della situazione greca: dalla ristrutturazione del sistema produttivo al feroce attacco al salario diretto ed indiretto, dalla privatizzazione delle industrie ed infrastrutture di stato alla proletarizzazione di fasce sempre più ampie di classe media…

 

La crisi non ha prodotto solo misure di austerità ma anche un numero impressionante (almeno per quel che siamo abituati a vedere in Europa) di conflitti: riot e scioperi generali, assemblee di quartiere e occupazioni di piazza, con tutto il loro carico di potenzialità e limiti.

 

Nell’ultima parte dell’intervista affrontiamo il nodo della crisi migratoria, divenuto centrale soprattutto in seguito agli accordi dell’Unione Europea con la Turchia del marzo 2016

“In bilico fra umanesimo e repressione, fra carità e reclusione, il governo greco ha gestito la “crisi dei rifugiati” come parte esemplare di una più generale “crisi umanitaria” in Grecia.

[I rifugiati] devono essere utilizzati come modello della strategia dominante dello Stato, una “glorificazione della carità e dell’umanitarismo” da applicare alla classe lavoratrice in generale. Immigrati e proletari autoctoni devono accettare il loro destino, abbassare le proprie aspettative e fare affidamento su quelle misure “sociali non-mercificate”, come la carità, intese a ridurre le conseguenze del deprezzamento della forza lavoro […], condizione che tende a diventare permanente.”




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