Macerie su Macerie – 27/09/21 – L’immunità, l’eccezione, la morte
A Macerie su Macerie la traduzione e la lettura di un articolo francese di Olivier Cheval sul pass sanitario.
L’immunità, l’eccezione, la morte
Pensare ciò che ci accade con Vilém Flusser
di Olivier Cheval
1.
Un lasciapassare sanitario digitale è dunque ormai richiesto all’ingresso di bar e ristoranti,
cinema e teatri, musei e palazzetti dello sport, discoteche e centri commerciali, TGV e aerei. Per
viaggiare, per divertirsi, per incontrarsi bisogna essere in grado di dimostrare la propria
innocuità virale utilizzando un insieme di quadratini bianchi e neri leggibili da una macchina
dotata di sensore fotografico e connessione internet, insieme che è stato chiamato Quick
response code e soprannominato, per tendere a diventare veloci quanto la macchina, un QR
code. Questo sistema di smistamento e controllo mira ufficialmente a incoraggiare il maggior
numero possibile di persone a farsi vaccinare: al posto di una politica nazionale di vaccinazione
obbligatoria, lo Stato ha scelto il ricatto attraverso la minaccia rivolta a ciascun individuo della
privazione del proprio diritto alla socialità e al movimento nello spazio pubblico. L’esito di questa
politica della minaccia sarà la cessazione dei rimborsi per i test, se non prescritti da un medico,
a partire dal mese di ottobre, di modo che solo le persone vaccinate o infettate da meno di sei
mesi possano accedere a questi luoghi e servizi. Le persone non vaccinate dovranno pagare il
prezzo di un test per ottenere una tregua di tre giorni, in caso contrario, come ai tempi dei
lockdown, saranno escluse dai cosiddetti luoghi non essenziali. Anche se tutti gli altri potranno
goderne.
Innanzitutto, contrariamente a quanto suggerisce il nome, il lasciapassare sanitario non è un
dispositivo sanitario: esso priva i non vaccinati dell’accesso ad alcuni dei luoghi più spaziosi e
aperti, come dehors e musei, per costringere i loro momenti di convivialità all’angustia degli
spazi domestici, benchè sia da tempo dimostrato che il covid-19 è stata una malattia che si è
contratta attraverso concentrazione di aerosol in ambienti piccoli e chiusi. Il lasciapassare
sanitario è innanzitutto un dispositivo securitario, carcerario e strategico: è il nome della nostra
più grande sconfitta politica di questo inizio secolo. La sua attuazione avviene dopo
l’introduzione del braccialetto elettronico come provvedimento giudiziario nel 1997 e l’emissione
dei passaporti biometrici dal 2009. Sulla scia di questi due oggetti nuovi eppure ormai
banalizzati, nel senso che nessuno nel dibattito pubblico ne propone più l’abolizione, esso
contribuisce ad associare l’individuo ad un codice digitale; a legare la sua libertà di movimento a
quanto registrato in questo codice; a slegare questa costrizione da un provvedimento
giudiziario, in modo che tutti siano trattati come criminali o potenziali pericoli – una bomba
batteriologica, attualmente. La grande perversità neoliberale del lasciapassare sanitario è che
incoraggia ciascun cittadino a reclamare il proprio codice, con un atto volontario, molto spesso
prendendo un appuntamento su internet, mentre nessuno ha mai chiesto di farsi mettere un
braccialetto alla caviglia. La grande violenza autoritaria del lasciapassare è quella di trasformare
un buon milione di individui, bigliettai di cinema, camerieri di ristoranti, proprietari di bar,
sorveglianti di musei, cassieri di piscine, organizzatori di feste di paese, in rilevatori di codici a
barre, in controllori di identità digitali – in uno straordinario contingente di polizia 2.0.
Un anno fa, al termine del primo sequestro, l’istituzione di un tale sistema di smistamento,
controllo e sorveglianza digitalmente assistito era una delle ipotesi di ciò che la stampa liberale
chiamava la teoria del complotto del “Grand Reset”, della Grande Reinizializzazione. Sei mesi
fa, il Presidente della Repubblica e i suoi portavoce assicuravano con la mano sul cuore che
non avrebbero mai fatto ricorso a un dispositivo che avrebbe creato due categorie di cittadini:
non si divide la Repubblica, dicevano. Il complotto annunciato è avvenuto, mentre la promessa
del governo è stata tradita. Indovinate chi viene accusato dalla stampa liberale di un rapporto
alterato con la realtà. “In un mondo che è davvero capovolto, il vero è un momento del falso.”
2.
Quest’estate ho letto Post-Histoire di Vilém Flusser, uscito due anni fa nell’indifferenza. Nessuno
aveva mai tradotto questo libricino pubblicato in portoghese nel 1983, ma si è scoperto di
recente che Flusser ne aveva scritta lui stesso una versione francese, quindi una piccola casa
editrice si è incaricata di pubblicarlo. Vilém Flusser è un pensatore ceco esiliato in Brasile e poi
in Francia, ha scritto in portoghese, tedesco, inglese e francese. Si dice di lui che sia un
fenomenologo e un teorico dei media, senza comprendere appieno cosa lo abbia portato da un
campo all’altro. È perché in effetti non esistono due campi distinti – si potrebbe dire che Flusser
è il fenomenologo di un mondo dove l’esperienza si è largamente ridotta ad essere una lettura
di interfacce, oppure, è la stessa cosa, che è l’ostinato commentatore, il continuatore e il critico
di un importante testo di Martin Heidegger: “La questione della tecnica”.
È in questo saggio che il filosofo tedesco ha proposto la sua celebre tesi dell’incorniciamento
del mondo tramite la tecnica moderna. Ciò che Heidegger postula è che dall’utensile alla
macchina, dalla tecnica artigianale alla tecnica motorizzata, c’è una rivoluzione ontologica: il
campo di cui si occupa un contadino che lo circonda di siepi non è lo stesso campo da cui un
imprenditore agricolo estrae le risorse naturali; il fiume attraversato da un ponte non è lo stesso
fiume del fiume da cui la cui centrale idroelettrica trae dell’elettricità. Dall’una all’altra ciò che
cambia è che la tecnica moderna si interessa alla natura – aria, acqua, legno, terra, roccia – in
quanto riserva di energia da estrarre e da immagazzinare – il vento scompare come fenomeno,
il campo scompare come luogo, il fiume cessa di essere questo oggetto davanti a noi che
attraversa il paesaggio, per rivelarsi ogni volta come “fondo”, una massa interamente disponibile
per il calcolo, l’estrazione e l’accumulo. La tecnica non è solo l’indice della ragione strumentale
dell’uomo: essa è un certo modo di svelare il mondo, ottenuto da quella che Heidegger chiama
un’interpellanza o una provocazione fatta alla natura perchè si riveli come fondo. Questo
disvelamento «accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò
che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è
immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni».
Heidegger risponde quindi a un’obiezione immaginaria: la centrale idraulica che si alimenta dal
Reno impedisce che esso continui ad essere un fiume, lo stesso che cantava Hölderlin, e che si
possa ancora ammirarlo? “Può darsi, ma come? Solo come oggetto “impiegabile” per le
escursioni organizzate da una società di viaggi, che vi ha messo su (bestellt) una industria delle
vacanze”. Allora il testo è attraversato dall’ombra di un’intuizione subito respinta: e se con la
tecnica moderna fosse l’uomo a rivelarsi come fondo, ossia come energia liberata, ottenuta,
trasformata, accumulata e oggetto di nuove trasformazioni? “Il parlare comune di “materiale
umano” [e ancor più oggi di risorse umane], di “contingente di malati” di una clinica, lo fa
pensare”. Segue un sentiero contorto e tortuoso, di quelli che non portano da nessuna parte: la
guardia forestale che crede di seguire l’esempio del nonno è infatti, suo malgrado, impiegato
dall’industria del legno smaniosa di cellulosa; essa stessa è a sua volta provocata dalla
domanda di carta da parte dell’industria della stampa, per i giornali o le riviste illustrate; “Questi
a loro volta dispongono il pubblico ad assorbire le cose stampate, in modo da divenire
impiegabile per la costruzione di una pubblica opinione costruita su commissione”. L’Essere
resta misterioso, indeterminato, allorchè sembrerebbe portare un carico politico davanti al quale
Heidegger indietreggia, e il percorso si biforca immediatamente: perché nella tecnica il mondo si
rivela in un certo modo all’uomo, si disvela come un fondo, l’uomo resta il soggetto di questo
ritiro dall’oggetto, e quindi non è mai “un fondo puro”.
Il libro di Flusser cerca di riprendere il pensiero di Heidegger ai tempi della cibernetica. E di
capire come il dispositivo, che oggi prende il posto della macchina, sia proprio la tecnica che
trasforma l’umano in un fondo. Heidegger aveva intuito che la salute fosse il primo posto in cui
si sarebbe presentato questo rischio. Flusser conferma l’intuizione: “la medicina è il grande
scandalo del presente”. Questo perché non è mai stata una scienza dura: essa ha a che fare
con un soggetto, il malato, che non è materia inanimata disponibile a tutti i calcoli. Ma come
tutte le scienze molli, come l’economia statistica o la politologia, essa è in preda al proprio
indurimento tramite la quantificazione computerizzata. È quando il malato diventa un oggetto, e
il contingente dei malati un fondo, che la vita cessa di essere pensabile e che si verifica una
svolta epocale.
Nell’era delle microschede, del lancio del Minitel e dei moduli da compilare in maiuscolo in
caselle quadrate, Flusser è come il primo spettatore dell’emergere di un mondo che sembra
vedere meglio di noi, troppo accecati come siamo dala luce dei nostri schermi – egli profetizza la
digitalizzazione del mondo futuro come se fosse già avvenuta davanti ai suoi occhi. Il mondo
preindustriale aveva inventato l’utensile, il mondo industriale ha inventato la macchina, il mondo
postindustriale avrà inventato il dispositivo o l’aggeggio, cioè il programma. Ad ognuna di
queste tecniche la propria ontologia, la propria etica, la propria politica. L’utensiole era al centro
di un mondo contadino e artigiano dove la natura era un cosmo animato di cui prendersi cura,
dove le persone erano un gregge da guidare, dove il tempo era fatto di cicli per i quali si
attendeva pazientemente il ritorno, dove la vita era tracciata dal destino, dove l’azione valeva
per la finalità che le si dava. La macchina aveva segnato l’ingresso in un mondo inanimato e
causale, il mondo esteso della materia e della produzione, del lavoro in catena di montaggio,
della libertà politica e della possibilità della rivoluzione. L’ontologia programmatica che il
dispositivo inventa, come si può intuire nelle arti, nella scienza, nella politica, è l’ingresso in un
mondo formale, molteplice e piatto nel quale causa e fine sono sospesi: esiste solo una
superficie di virtualità troppo numerose per essere calcolabili, e che quindi si realizzano
secondo una necessità che non può che assumere l’aspetto del caso, come mostrato dal
collage dadaista, dalla teoria del big bang o dalla governance attraverso la statistica. “Una tale
ontologia programmatica ha generato l’invenzione di computer e strumenti intelligenti. Essa
conduce alla trasformazione della società in un sistema cibernetico fatto di dispositivi e di
funzionari. Gli uomini sono programmati per funzionare come pezzi di un gioco simbolico. Sono
criptati e numerati. Diventano calcolabili in statistiche e cartoncini traforati. Sono programmati in
modo tale da accettare volontariamente la loro programmazione. Il funzionario è un uomo
programmato non solo per funzionare, ma anche per accettare il proprio funzionamento.
Naturalmente, una tale società postindustriale non ha ancora raggiunto il suo stadio di perfetta
realizzazione. Ma abbiamo già i suoi modelli: Eichmann come modello del funzionario, Kissinger
come modello di programmatore”.
Quanto a pessimismo, Flusser non ha nulla da invidiare ai suoi contemporanei della teoria
critica post-marxista, Adorno, Debord o Cesarano. Il passo ulteriore di Flusser deriva dal fatto
che egli non crede più nemmeno all’utilità della critica: si accontenta di descrivere e di giocare.
In questo è forse più vicino a Borges, alla sua invenzione di labirinti di cui si è persa la chiave, di
sistemi le cui istruzioni per l’uso non sono ancora state inventate, di copie che hanno
rimpiazzato i propri modelli. Flusser descrive la società cibernetica governata dai dispositivi
come l’avanzare del caso nel vuoto: un programmatore programma un dispositivo, poi un altro
dispositivo per aiutarlo a programmare quel dispositivo e molto rapidamente i dispositivi iniziano
automaticamente a programmarne altri, si servono dell’umano come fondo che alimenta il
feedback di cui hanno bisogno per funzionare, ed ecco che nessuno ha più la presa. Una
burocrazia comincia ad operare in isolamento, per alimentare i dispositivi e cibare le statistiche.
Nello stesso periodo, Duras aveva intuizioni molto simili: “La robotica, la telematica,
l’informatica, questi sono progressi che, ad ogni livello, si fanno una volta per tutte. Per effetto di
ciò che avrà fatto un solo uomo, tutti gli altri uomini saranno privati dal poter inventare».
L’intellettuale critico non è mai altro che un funzionario come un altro, previsto dal programma:
egli è questo margine che si crede resistente al sistema ma viene da esso incluso suo
malgrado, perché produce un feedback più qualitativo che porta il sistema ad affinarsi, i
dispositivi ad essere meno grossolani, meno leggibili, più sottili. “Se per eresia si contesta il
programma del dispositivo, subito cresce, all’interno del dispositivo, un ministero della
contestazione. In fin dei conti, è sempre il dispositivo che soddisfa i capricci di qualsiasi eresia
attraverso l’uniforme che gli dispensa. Il totalitarismo della standardizzazione multiforme opera
automaticamente ovunque. Democrazia liberale.” Per Flusser, la società cibernetica è per
essenza apolitica: la funzione ha sostituito l’azione, una serie di input e output individuali e
accoppiati ha preso il posto delle persone, la politica è stata ridotta a un programma che
manipola l’opinione sondandola costantemente. L’unico atto politico che Flusser contempla
ancora – con l’ironia del catastrofista – è la diserzione. All’epoca non si parlava ancora di bug.
3.
Di fronte al movimento di protesta contro il lasciapassare sanitario, la stampa liberale e più in
generale il campo progressista fingono di non capire l’oggetto della protesta. Dietro i no-pass si
nasconderebbero solo dei no-vax un po’ fuori di testa. Il movimento sarebbe viziato dalla
cospirazione, dalle fake news, da un odio per la scienza e da un conservatorismo proto-fascista.
E’ che è molto facile non vedere che dietro la trama c’è il programma. Che dietro le derive e gli
eccessi, c’è una giusta intuizione. Cos’è questa intuizione? Che una tecnocrazia
governamentale al servizio esclusivo della tecno-scienza-economia applichi un programma
digitale di controllo come fanno tutte le democrazie liberali, decennio dopo decennio, senza
tregua; che tecnologia, polizia e profitto avanzino di pari passo, senza che alcun potere cambi il
gioco, nè ambisca a farlo; che il lasciapassare sanitario segua la stessa logica della
generalizzazione della videosorveglianza, dell’introduzione del passaporto biometrico e del
braccialetto elettronico, quella di una digitalizzazione dello spazio pubblico volta ad aumentare
la sorveglianza delle persone e l’amministrazione della vita; che esso segni l’iscrizione a lungo
termine di tutte le misure eccezionali adottate nell’ultimo anno e mezzo, l’entrata dello stato di
emergenza sanitaria nella legge.
La genialità di Heidegger è stata quella di dimostrare che tecnica e ontologia sono indiscernibili:
che non c’è prima la scienza della natura che comincia a trasformare gli oggetti in superficie di
calcolo, poi la tecnica che sfrutta questi progressi scientifici applicandoli, infine un mondo che si
trova cambiato. No, c’è prima l’incorniciamento del mondo come nuovo modo di rapportarsi
all’essere, e questo incorniciamento irriga la scienza e la tecnica nello stesso movimento.
Bisogna prima cominciare ad avere l’intuizione dello spazio esteso, della natura come risorsa
illimitata, per avere l’idea di misurare delle quantità o di sfruttare delle superfici. La genialità di
Flusser è stata quella di spingere questa intuizione fino alla nuova svolta ontologica del secolo
scorso: fino all’incornciamento dell’umano. Entrambi dicono quanto gli anti-tecnologie si
sbaglino tanto quanto i tecnofili più zelanti: non c’è tecnica da negare come un dominio di cui
potremmo fare a meno, che potremmo respingere, e tutto sarebbe risolto. Qualsiasi critica alla
tecnologia non può prescindere dal regime di razionalità che ha dato vita a queste tecnologie: è
qui che nasce la difficoltà. L’incorniciamento dell’umano mediante quantificazione
computerizzata è mostruoso, ma non è delirante: è anzi l’unico regime di razionalità che
conosciamo, che abbiamo mai conosciuto, noi che siamo nati nel secolo scorso. Il processo
sull’irrazionalismo condotto dai media contro i manifestanti è superficiale: si ferma a raccogliere
le parole di pochi imbecilli per alimentare la propaganda liberale. Eppure è qui che il terreno ci
scivola sotto i piedi: quando diciamo che la strumentalizzazione della tecnologia a fini politici ci
spaventa, diciamo una verità che è anche un impensabile. Non sapremmo dire cosa
esisterebbe al posto di questa tecnologia, né cosa ne potremmo pensare se non esistessimo in
questa ontologia programmatica. Questo impensabile è vertiginoso quanto questo pensiero
dell’esistenza di programmi automatizzati – un altro impensabile che mette a rischio il pensiero e
che inevitabilmente conduce alcuni a cercare chi c’è dietro i programmi. In questa vertigine, in
questa mancanza della ragione, il movimento sarà sempre colto in difetto: è così che il
programma, che è pura razionalità, si difenderà a tutti i costi. È così che il sistema
contrattaccherà, attraverso i suoi funzionari più zelanti, i verificatori di fatti per i quali la verità è
una somma di verità verificabili presso i ministeri che rilasciano le informazioni vere.
Il Grand Reset non è, però, una fantasia o un complotto: è il nome di una proposta di
aggiornamento del programma emanata dal Forum Economico Mondiale, uno dei più importanti
poli di programmazione planetaria al mondo, con il pretesto della pandemia e della crisi politica,
economica e sociale che ne è seguita. L’andamento del programma non è lineare: procede
tramite crisi e balzi. La crisi del covid è un’incredibile opportunità per la tecnocrazia liberale di
accelerare il programma – aggiornarlo. Ma è anche un’incredibile occasione, per noi, di portarlo
alla luce. Quando la folla sfila per dire che è necessario rallentare l’accelerazione dell’attuazione
del programma, bisogna essere molto testardi per pensare che non sia qui che ciò si gioca,
molto faziosi per sentire solo le falsità. Perché una verità mai detta, difficilmente dicibile, eppure
in agguato nell’ombra di ogni corpo, di ogni cervello ancora un po’ umano, trova finalmente
modo di esprimersi. I Gilet Gialli erano stati l’occasione, rischiosa, come ogni occasione, di
vedere la politica diventare affare di tutti, lontano da partiti, sindacati, avanguardie del
proletariato, l’occasione data a ciascuno che non ci si ritrovasse, che non ci si ritrovasse più, di
sperimentare l’occupazione e la difesa di un territorio, non fosse altro che una rotonda, una
strada borghese dietro una barricata, un parcheggio di un supermercato. Non dobbiamo
perdere questa nuova occasione, quella di giletjaunizzare il movimento no-pass, e di fare
dell’opposizione alla digitalizzazione del controllo della vita la possibilità di un bug, per quanto
piccolo, nel programma.