Una storia di lotta tra le campagne romane
Scritto dainfosu 25 Marzo 2017
Non è certo una novità che le condizioni di chi è impiegato nel lavoro nei campi siano al limite della sopportazione. La storia che andiamo a raccontarvi è simile a tante altre ma per la sua conclusione, tutt’altro che tipica, può essere un buon esempio per tutti coloro che lottano in questo settore e può dar coraggio per ribellarsi allo sfruttamento semi-schiavistico imposto in tutte le campagne del nostro paese da nord a sud.
Questa è la storia di 60 lavoratori impiegati in un’azienda agricola della campagna romana, nei pressi del litorale, che produce ortofrutta e aromi per i maggiori marchi della grande distribuzione e discount, da Coop a Conad, ad Eurospin. I braccianti che lavorano per quest’azienda sono quasi tutti indiani Sikh provenienti dal Punjab, ad eccezione di qualche italiano che ricopre però mansioni di livello superiore.
Questi lavoratori sono costretti a paghe da fame di 4 euro l’ora e a giornate lavorative interminabili di 10 ore minimo al giorno, quando per contratto non dovrebbero lavorare più di 6 ore e mezza al giorno e prendere una retribuzione di 8 euro l’ora circa. Per non parlare delle condizioni lavorative: una sola pausa giornaliera di lavoro, quella per il pranzo, di non più di mezz’ora circa e con l’obbligo di portarsi da casa pasto ed acqua; un lavoro duro e insopportabile, esposti al freddo e alle intemperie di inverno o alle temperature infuocate delle serre in estate; sotto lo sguardo scrutatore e vigilante di un caporale autoritario e dispotico; obbligati a comprarsi in azienda le attrezzature di cui necessitano per lavorare, come ad esempio i guanti.
Nonostante le condizioni di profonda precarietà, la paura del caporale e della perdita del posto, insieme hanno trovato il coraggio di dire basta e iniziare una lotta. Si sono auto-organizzati e sono entrati in sciopero, richiedendo l’allontanamento del caporale, la fornitura delle attrezzature a spese dell’azienda, un aumento della paga oraria e un’ulteriore pausa dal lavoro di 10 minuti la mattina per fare colazione. Il padrone è stato costretto a recarsi in azienda, che da tempo immemorabile ormai gestiva a distanza tramite l’intermediario scelto, e a negoziare con i lavoratori. Ha provato a fare la voce grossa, a non cedere, a ricattarli, dicendo loro che potevano anche andarsene, tanto ne avrebbe trovati chissà quanti di indiani disposti a sostituirli alle medesime condizioni. Ma i braccianti Sikh non si sono lasciati intimidire e l’indomani dopo solo 5 ore di lavoro e sono usciti dall’azienda e al padrone, costretto nuovamente a recarsi sul posto, hanno gridato: ‘sarà così tutti i giorni finché non ci riconoscerai quello che chiediamo!’ E così i 60 lavoratori Sikh hanno ottenuto dall’azienda la fornitura di attrezzature a suo carico; hanno costretto il datore di lavoro ad allontanare il caporale autoritario che li aveva gestiti sino ad allora, anche se poi sostituito da un altro ma meno dispotico ed odioso; hanno ottenuto un ulteriore pausa dal lavoro di 10 minuti la mattina e un aumento di 50 centesimi della paga oraria.
Abbiamo sentito Lucilla dei Clash City Workers per farci raccontare direttamente questa lotta e riflettere insieme a lei sui meccanismi di sfruttamento dei lavoratori, che sono sistemici e propri del capitalismo, non certo geografici come sostengono alcuni sindacati confederali, all’interno della catena di produzione e distribuzione degli alimenti dal campo fino allo scaffale del supermercato.
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