Sacko Soumaila: eliminare i confini mentali materializzati dalla violenza razzista

Scritto dasu 9 Giugno 2018

«Abbattuto come un animale», così si è espresso uno dei compagni che vivono nella baraccopoli dove stava Sacko, un bracciante che tentava di non essere succube, tentava di organizzare i compagni senza essere un quadro sindacale con il culo coperto, ma la sua condizione era di bracciante e viveva, si procurava quello che gli serviva, raccoglieva frutta lì, in quel territorio ostile, come è ogni gretto sistema di sfruttamento schiavista, a Saluzzo, Serravalle, in Veneto, nel Gargano… oppure nella piana di Gioia Tauro.

Certi sindacati – sia confederali, che di base, senza distinzione – si sono sistematicametne frapposti tra padroni e schiavi cercando di canalizzare e convogliare la rabbia, addomesticando quegli uomini da soma che invece più brutalmente vengono trattati come bestie dal sistema: dai caporali ai padroni, dalle guardie che sgomberano alle squadracce che aggrediscono o addirittura bruciano… ai criminali mentecatti che sparano per uccidere. L’Usb in particolare ha avuto una sovraesposizione, cavalcando il fatto che Sacko fosse un simpatizzante e, come sempre avviene, Aboubakar si è messo alla testa delle manifestazioni pacifiche, quasi istituzionali dei compagni del giovane maliano assassinato, in favore di telecamera e con un eloquio invidiabile ha esposto quello che tutti già sappiamo senza che questo muti la condizione di nessuno dei braccianti di San Ferdinando, che peraltro sono difficilmente organizzabili proprio per la loro condizione nomade tra zone diverse a seconda della stagione di raccolta, oltre all’effettiva efficacia del disinnesco di potenziali concentramenti esplosivi attraverso le divisioni ottenute con campi regolari, minacce di sgombero e controlli costanti da parte dei gendarmi, la militarizzazione delle situazioni formalizzate e regolarizzate. In modo che i protagonisti di questo fenomeno migrante debbano affrontare sempre tutto da soli, senza una rete che li sostenga, appoggi, aiuti.

E comunque tutto questo contesto – la creazione a scopo spettacolare di una figura martire sindacale, il rimarcare che non era in corso alcun furto – non legittimerebbe l’esecuzione a pallettoni nel caso si fosse trattato di un africano intento a procurarsi illegittimamente quanto gli serviva per alleviare la propria condizione di vita. La sovraesposizione mediatica serve soltanto a eccezionalizzare una manifestazione che è diventata invece la “normalità” delle agenzie interinali: il capitalismo semplicemente, al di là di etichette che descrivono altre realtà esistenti nel territorio come “mafia” e “caporalato”… basti pensare che il tiro al bersaglio con le persone di pelle nera è normale a Macerata o a Firenze, dove non si parla di caporalato o mafia, ma “soltanto” di fascismo, emanazione di quella “cultura italiana”, coloniale e razzista presente in ogni ganglio della nazione.

Di tutto questo e qualcosa in più abbiamo parlato con Irene di Campagne in lotta:

sfrondare la retorica sui braccianti


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