Ancora attentati nelle Filippine di Duterte
Scritto dainfosu 3 Febbraio 2019
Due bombe sono esplose domenica scorsa nel sud delle Filippine, causando più di 20 morti e oltre 80 feriti. Il duplice attentato è avvenuto durante la messa, davanti alla cattedrale di Nostra Signora del Monte Carmelo a Jolo City. Jolo è un arcipelago di oltre 457 isole nel sud delle Filippine, abitato prevalentemente da musulmani (il 97% della popolazione).
Tre giorni dopo un altro attentato viene messo a segno in una moschea a Zamboanga in una provincia a maggioranza cristiana, nella regione di Mindanao: il bilancio è di 2 morti e 4 feriti. L’attentato è avvenuto poco dopo che in tv il presidente filippino Rodrigo Duterte aveva detto che sull’isola di Jolo si è trattato di un attentato kamikaze rivendicato dall’Isis, e a meno di una settimana dallo storico referendum che ha sancito la creazione della regione autonoma musulmana di Bangsamoro (nazione dei Moro), cercando di porre fine ad un conflitto tra forze separatiste islamiche e governo centrale che dura da 50 anni e ha causato oltre 150mila morti.
Gli attentati possono dunque essere letti come il rigetto di una risoluzione pacifica e politica a un conflitto più che quarantennale che ha visto negli anni la formazione di diversi gruppi di guerriglia con spinte autonomiste e islamiste contro cui Duterte si è fortemente opposto.
Un esempio del conflitto in corso lo dà la presa della città di Marawi nel 2017 da parte di gruppi di guerriglia locali che si ispiravano e si dichiaravano affiliati all’Isis. In quell’occasione servirono cinque mesi all’esercito regolare di Manila per riprendere la città.
Con Duterte il processo di pacificazione ha avuto un’accellerazione. È stata proclamata la legge marziale per reprimere la guerriglia mentre sul piano politico si è lavorato in parlamento fino ad arrivare al referendum di qualche settimana fa.
Ma i due attentati appena accaduti fanno intendere che non tutti hanno intenzione di deporre le armi e che il processo di pacificazione, tentato da Duterte con una solerte repressione, non è riuscito a pieno. Sullo sfondo il rischio che quello che rimane dell’esercito dello Stato Islamico possa sconfinare nel sud est asiatico, in quelle zone dove la presenza musulmana è maggioritaria con l’intento di riorganizzarsi e trovare nuovi affiliati.
Ne abbiamo parlato con Paolo Affatato, responsabile della redazione asiatica dell’agenzia Fides