Beni comuni come nuove recinzioni
Scritto dainfosu 18 Marzo 2024
Il geografo Élisée Reclus, preoccupato perché “Le antiche forme di possesso, che assicurano a ogni membro della comunità pari diritti di sfruttamento della terra, dell’acqua, dell’aria e del fuoco, non sono che elementi di sopravvivenza arcaica in fase di rapida estinzione“, descrive in tal modo l’avvento della proprietà: “Ogni curiosità naturale, la roccia, la grotta, la cascata, il crepaccio di un ghiacciaio, tutto, fino al suono dell’eco, può diventare proprietà privata. Degli imprenditori appaltano le cateratte, le circondano di barriere di legno per impedire ai viaggiatori non paganti di contemplare il tumulto delle acque, poi a forza di pubblicità trasformano in bella moneta sonante la luce che gioca sulle goccioline in sospensione e il soffio del vento che dispiega bande evanescenti di vapori“. L’uomo stesso, che Réclus definisce “natura che prende coscienza di sè” è preso in questo ingraggio di espropriazione fondata sulla proprietà.
Parlando di beni comuni, la prima questione in gioco è che i termini utilizzati nel dibattito contemporaneo, che nei fatti è sostanzialmente accademico e istituzionale, sono molteplici. Il significante “bene comune” è vacuo. Per non perdersi nei meandri di un’astrazione slegata dall’agire quotidiano, proviamo quindi a rimanere rasenti alla materialità dei beni comuni, mantenendo chiara una premessa: che se si parla di regolamenti e delibere su di un “bene”, il campo del discorso è tutto interno alla razionalità giuridica ed economica. Sono infatti beni in senso giuridico solo le categorie suscettibili di una valutazione economica.
A Torino, sulla scia di esperienze già implementate altrove, Roma, Napoli e Bologna in primis, il benecomunismo sta entrando a gamba tesa anche nei mondi dell’autogestione. Attuale è il caso dell’ex-Askatasuna in corso Regina 47, occupazione che si è autosgomberata e rispetto a cui, con delibera del 30 gennaio scorso, l’amministrazione comunale ha avviato un percorso di co-progettazione per il governo condiviso di alcuni spazi.
E’ l’occasione per tornare a parlare di “beni comuni” con uno sguardo parziale e critico, avendo come ospite in studio Francesco Migliaccio, che ha recentemente pubblicato un articolo dal titolo “I beni comuni come nuove recinzioni. Esplorazioni lungo la Dora a Torino“.
Da questa chiacchierata emerge chiaramente come i beni comuni, a Torino, non rappresentino un superamento, bensì una riaffermazione della proprietà, una proprietà che viene messa a valore grazie a un’articolata rete di potere pubblico-privato fatta dai soliti noti: fondazioni bancarie, industria del terzo settore, imprenditoria e partiti politici. E’ una classe sociale dai contorni definiti. In questo quadro, la “partecipazione attiva” dei cittadini si rivela funzionale a processi di sorveglianza e controllo territoriale, così come riempimento dei vuoti lasciati da un sistema welfaristico al collasso. Si tratta in ogni caso di partecipazione oligarchica, laddove i beni comuni creano nuove gerarchie dell’esclusione/inclusione: solo una ristretta parte degli abitanti della città possono essere riconosciuti dall’autorità come cittadini di serie A, portatori delle caratteristiche richieste o legittimati da “garanti” tutelari per la gestione del bene comune.
Sulla scia della “Città collaborativa” o CO-CITY promossa a livello europeo, si configura quindi l’ennesimo paradigma di governance urbana fondato sulla guerra a ciò che è illegale, informale, gratuito, autonomo.
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