Il partito unico. Analisi e prospettive
[sociallinkz]La nascita del governo Letta pare sancire in modo formale il costituirsi di una sorta di Partito unico, che peraltro emergeva già nell’esperienza del governo Monti. In entrambi i casi l’orizzonte insuperabile della propria sovranità limitata ne delinea le scelte e gli orientamenti. Il quadro definito sia dagli organismi di governance sovranazionale sia dalla finanziarizzazione dell’economia che, ben espressa nella metafora del “pilota automatico”, opera secondo logiche non controllabili dai governi nazionali, non viene messo in discussione.
Ne consegue che i limiti dell’azione di governo rendono comunque impalpabile la distanza tra PD e PDL, fornendo le basi per una collaborazione non balneare.
La vera debolezza della compagine guidata da Enrico Letta è nell’immaginario. Gli elettori, specie quelli di sinistra, la cui identità in questi anni si è costruita più nell’opposizione al berlusconismo che in un chiaro modello di società, non possono che essere disorientati. I malumori sono tanti ed emergono in modo chiaro da più parti, tanto da scompigliare gli equilibri all’interno del PD.
All’indomani del Primo Maggio torinese, con il PD contestato lungo l’intero percorso e diviso al suo interno, il segretario Morgando si dimette perché il PD piemontese sarebbe stato trascurato nella divisione delle poltrone di governo. Nulla di meno opportuno persino per i meno scafati esperti di comunicazione politica.
Nei fatti il governo Letta ha un solo compito: gestire l’esistente in modo da garantire che gli italiani ingoino le misure imposte dalla governance europea per gestire una crisi che non è solo una crisi economica ma anche politica, nella quale le democrazie più fragili reggono sempre meno. Ecco dunque un modello unico, liberale in economia e autoritario sul piano politico.
Sullo sfondo la crisi dell’Occidente, che appare sempre meno contingente, ma segnala un processo di decadenza su scala planetaria di fronte all’affermarsi di un blocco di paesi emergenti molto forti aggressivi e capaci. L’India, la Cina, il Brasile, la Russia, il Sudafrica si stanno candidando ad un ruolo sempre più forte su scala planetaria, senza peraltro che in Occidente se ne abbia chiara consapevolezza.
Letta, nel suo discorso di insediamento, ha posto l’accento su due temi, uno politico e l’altro economico come questioni cardine da affrontare nell’agenda di governo.
La disoccupazione, specie giovanile, e l’astensionismo crescente.
La possibilità di monetizzare il disagio sociale sono tuttavia minime, al di là di qualche pezza che il governo, se troverà le risorse, potrà mettere qua e là.
Il modificarsi del capitalismo stesso rende difficile immaginare uno “sviluppo” che consenta la ripresa della produzione e, quindi, una maggiore occupazione. Il capitalismo classico ben si sposa con il lavoro, purché sia lavoro salariato, dipendente, asservito a basso costo. Diverso è il meccanismo che fa funzionare il capitale finanziario che non ha bisogno per crescere di merci da far girare. Il denaro è il punto di partenza e quello di arrivo. Sebbene questa prospettiva rischi di condurre ad una sorta di asfissia del sistema, tuttavia al momento, rende strutturale la disoccupazione. Salvo ovviamente che entrino in gioco altri attori interessati a cambiare le regole di un gioco truccato, tanto truccato da essere però irriformabile.
Questa situazione per paradosso ci conduce rapidamente alla prospettiva di uscita da ogni forma di capitalismo come unico orizzonte per miliardi di esseri umani.
Come? L’esodo conflittuale dall’esistente si prefigura come possibilità concreta di coniugare autogestione e conflitto, ma i percorsi che delineano questa prospettiva teorica vanno costruiti di giorno in giorno e continuamente verificati nella prassi.Anarres ne ha parlato con Salvo Vaccaro dell’Università di Palermo.
Ascolta la chiacchierata che abbiamo fatto con lui 2013 05 03 politica salvo vaccaro
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