Gradisca. Il SAP vuole il silenzio sul CIE
Scritto dainfosu 31 Gennaio 2017
A Gorizia, di fronte alla prefettura nella centralissima piazza della Vittoria si è svolto un presidio contro la riapertura del CIE di Gradisca. A fine anno il ministro dell’Interno ha dichiarato di voler riaprire i CIE chiusi da tempo ed di volerne uno per ogni regione.
Le realtà antirazziste della regione hanno lanciato un primo segnale di lotta. contro questa ipotesi. L’iniziativa è stata caratterizzata da numerosi interventi che hanno illustrato le ragioni della totale opposizione a queste prigioni amministrative per senza documenti.
In quell’occasione sono stati raccontate diverse storie di violenza da parte delle forze del disordine nel CIE di Gradisca. Questo Centro, per tutti gli anni in cui è stato aperto, è stato uno dei più caldi, sia per le rivolte e proteste interne che per le numerose fughe.
Sono stati proprio i reclusi a chiudere il centro distruggendolo e dandolo alle fiamme più volte. Intenso è stato anche il fronte di informazione e lotta delle realtà antirazziste regionali prima e dopo l’apertura l’apertura del lager. Quelle lotte sono costate anche denunce e botte.
L’ultima denuncia è stata annunciata mezzo stampa all’indomani del presidio del 7 gennaio. Sara, una compagna del Germinal di Trieste, è stata denunciata per calunnia e minacce dal sindacato di polizia SAP. Sara, durante il presidio ha letto una lettera dei reclusi di Gradisca, che raccontavano le ragioni di un lungo sciopero della fame nel 2010. In questa lettera venivano anche denunciati i pestaggi della polizia all’interno del centro.
Ne abbiamo parlato con Sara, che ha detto in modo chiaro, che le denunce della polizia non solo non fermano le lotte, ma anzi sono uno sprone ad intensificare le iniziative, per impedire la riapertura del CIE di Gradisca.
Ascolta la diretta con Sara:
Leggi la lettera dei prigionieri di Gradisca:
“Noi stiamo scioperando perché il trattamento è carcerario, abbiamo soltanto due ore d’aria al giorno, una al mattino e una la sera, siamo tutti rinchiusi qui dentro, non possiamo uscire.
Ci sono tre minorenni qui dentro, sono tunisini e hanno sedici anni, ci chiediamo come mai li hanno messi qui se sono minorenni?
Il cibo fa schifo, non si può mangiare, ci sono pezzi di unghie, capelli, insetti. Siamo abbandonati, nessuno si interessa di noi, siamo in condizioni disumane.
La polizia spesso entra e picchia. Circa tre mesi fa con una manganellata hanno fatto saltare un occhio ad un ragazzo, poi l’hanno rilasciato perché stava male e non volevano casini, e quando è uscito, senza documenti non poteva più fare nulla contro chi gli aveva fatto perdere l’occhio.
Ci trattano come delle bestie.
Alcuni operatori [della cooperativa Connecting People che gestisce il Centro, n.d.r.] usano delle prepotenze, ci trattano male, ci provocano, ci insultano per aspettare la nostra reazione, così poi sperano di mandarci in galera, tanto danno sempre ragione a loro.
C’è un ragazzo in isolamento che ha mangiato le sue feci. L’hanno portato in ospedale e l’hanno riportato dentro. È da questa mattina che lo sentiamo urlare, nessuno è andato a vederlo, se non un operatore che l’ha trattato in malo modo.
Il direttore fa delle promesse quando ci sono delle rivolte, poi passano le settimane e non cambia mai niente.
Da due giorni siamo in sciopero della fame e il medico non è mai entrato per pesarci o per fare i controlli, entra solo al mattino per dare le terapie.
Continueremo a scioperare finché non cambieranno le cose, perché sei mesi sono troppi e le condizioni troppo disumane.
Questo non è un posto ma un incubo, perché siamo nella merda, è assurdo che si rimanga in queste gabbie. Sappiamo che molta gente sa della esistenza di questi posti e di come viviamo. E ci si chiede, ma è possibile che le persone solo perché non hanno un pezzo di carta debbano essere rinchiuse per sei mesi della loro vita?”