Messico: un altro terremoto di classe
Scritto dainfosu 29 Settembre 2017
“Ore 7.19 del 19 settembre 1985. Le vie di El Centro, il quartiere storico di Città del Messico, erano vuote: la maggior parte dei capitalinos o stava dormendo o era già in fabbrica. Il terremoto dell’ottavo grado della scala Richter sorprese gli uni nel sonno, gli altri al lavoro. Una scossa lunga – più di tre minuti – e devastante: 10 mila morti, 100 mila case crollate e 5 milioni di persone senza acqua né luce. Nel 1985 la capitale era la città più popolosa del mondo: 16 milioni di abitanti concentrati soprattutto nella Colonia Obrera, il quartiere operaio. Era l’epoca del miracolo economico messicano e dagli Anni 70 migliaia di persone avevano scelto di trasferirsi dalla campagna in città in cerca di lavoro. Lo sviluppo urbano fu incontrollato: per tre decenni leggi e piani regolatori permissivi avevano consentito la costruzione di edifici precari non in linea con le norme antisismiche. (…) Ma il simbolo del terremoto del 1985, e delle disastrose politiche abitative del governo autoritario del Partito rivoluzionario istituzionale, rimasero le immagini del complesso residenziale Tlatelolco, un’area di due chilometri quadrati costruita nel 1960 per ospitare 80 mila persone. La scossa travolse buona parte dei 102 edifici che costituivano il complesso, intrappolando migliaia di persone: dalle macerie furono estratti più di 500 cadaveri.” (da Messico, breve storia del terremoto del 1985)
32 anni dopo la storia si ripete. Dopo la violentissima scossa sismica di magnitudo 8.2 del 7 settembre scorso, che ha colpito in particolare gli stati meridionali di Chiapas, Oaxaca, Veracruz e Guerrero, il 19 settembre un terremoto di magnitudo 7.1 ha investito la regione centrale del Messico, causando la morte di 337 persone, 200 delle quali nella capitale. Anche questa volta la calamità non ha colpito indiscriminatamente, perchè anche i terremoti sono sempre di classe: colpiscono gli edifici più vecchi, quelli per cui non ci sono soldi per la manutenzione, quelli costruiti speculando, colpiscono le zone in cui il rischio sismico è più alto ma dove chi non ha soldi o documenti è costretto ad abitare, colpiscono i quartieri delle classi popolari, le baraccopoli, colpiscono i poveri. La violenza politica e strutturale messa a nudo dai crolli è la stessa di trent’anni fa: speculazione edilizia, assenza di misure di prevenzione, enorme divisione di classe, anche in termini spaziali.
La “gestione” istituzionale dell’emergenza riproduce questa violenza. Interesse del governo messicano guidato da Peña Nieto è quello di favorire le imprese e la speculazione edilizia facendo del post-terremoto un’occasione per derubare ulteriormente la popolazione che però, come nell’85, sta dando prova di una grande capacità di auto-organizzazione. La solidarietà della strada, spontanea, è emersa con forza per riprendersi la città e tutti i luoghi colpiti dal terremoto. Persone che si arrangiano in modo autonomo per sottrarre le macerie da una classe politica collusa con le multinazionali, che vorrebbe demolire edifici che avrebbero bisogno solo di riparazioni per favorire i profitti degli speculatori immobiliari. Persone che si mobilitano da sé contro lo Stato e il Capitale per salvare le vite e la memoria di corpi “di scarto”. Come quelli delle sarte cinesi e centroamericane senza documenti, morte nel crollo di una maquiladora nella zona obrera a Città del Messico. Se non fosse stato per alcune colleghe sopravvissute, di loro non si saprebbe nulla: l’unica preoccupazione dei padroni è stata quella di recuperare macchinari e materiali e rimuovere i detriti il più velocemente possibile per ottenere i fondi assicurativi.
Per un commento sulla natura di classe dei terremoti, questa mattina abbiamo raggiunto ai microfoni Piero Gorza, antropologo e ricercatore presso l’Instituto de Estudios Indígenas di San Cristóbal de Las Casas: