Grecia. Prime deportazioni
Scritto dainfosu 5 Aprile 2016
Ieri sono cominciate le deportazioni di profughi e migranti dalla Grecia alla Turchia. Intorno alle nove del mattino sono approdate a Dikili due imbarcazioni provenienti da Lesvos. Il viaggio è stato anticipato di molte ore, forse per dribblare possibili contestazioni.
I deportati sono stati fatti scendere uno ad uno dalla la Nazli Zale. Ognuno era scortato da poliziotti dell’agenzia Frontex, che si mettevano in posa per le telecamere sfoderando ampi sorrisi.
Per i deportati non c’era modo di opporre resistenza.
Un’altra imbarcazione proveniente da Chios è stata lasciata nella rada per ore, finché l’altra barca non è stata svuotate. I prigionieri sono stati avviati ad un centro di detenzione. Non è chiaro cosa farà il governo turco.
Nel pomeriggio un gruppo di attivisti locali ed altri provenienti da Izmir sono riusciti ad aprire uno striscione con la scritta “Basta deportazioni. Aprire le frontiere”. La polizia ha strappato lo striscione e cercato di fermare i No Border. Solo la presenza dei media ha impedito i fermi.
A quanto si è appreso c’erano solo due rifugiati siriani, gli altri – 136 da Lesbo, 66 da Chios – erano algerini, pachistani, bangla e dello Sri Lanka.
Altre imbarcazioni sarebbero partite dal porto di Atene, il Pireo, dirette in Turchia.
Questa mattina non ci sono state altre partenze dal Lesbo, dove i prigionieri del campo di Moria, dopo aver capito che erano cominciate le deportazioni, hanno protestato nel campo, circondato dagli uomini di Frontex, cui il governo greco ha delegato la gestione dell’operazione, assumendo un atteggiamento pilatesco di non collaborazione né contrasto.
É molto improbabile che i poliziotti di Frontex abbiano informato i reclusi di Moria, il campo di accoglienza che in due settimane si è trasformato in prigione amministrativa, dei loro diritti e della possibilità di chiedere asilo politico in Grecia.
Ne abbiamo parlato con Alessandro Dal Lago, autore di un articolo uscito sul Manifesto di oggi e con Cosimo Caridi, corrispondente del Fatto Quotidiano, che si trovava a Lesvos, di fronte al centro di Moria.
Ascolta la diretta con Alessandro Dal Lago:
2016-04-05-deportazioni-grecia
… e quella con Cosimo Caridi:
Leggi l’articolo di Dal Lago:
Su catamarani e altri mezzi di fortuna, ma sotto la solerte vigilanza di funzionari Frontex, è iniziata la deportazione di migranti e profughi da Lesbo e altri porti greci in Turchia. Verso dove? Nessuno lo sa. Alcuni giorni fa Amnesty International ha accusato il governo turco di espellere centinaia di siriani in Siria, in un paese, cioè in cui la guerra c’è, benché se ne parli sempre meno. Intervistata sulla questione, una funzionaria Ue ha risposto. “È da escludere. L’accordo tra Ue e la Turchia non lo prevede. È scritto nero su bianco ”.
Ecco una risposta che meriterebbe una citazione in un’enciclopedia universale dell’insensatezza. La Ue fa un patto miserevole con Errdogan: 6 miliardi di Euro in cambio del ritorno in Turchia di migliaia di migranti e profughi. Si noti: con lo stesso Erdogan che mezzo mondo, compresa l’Europa (quando le fa comodo), accusa di imprigionare i dissidenti e imbavagliare la stampa. Dunque, un paese in cui nessun controllo si può esercitare su un governo semi-dittatoriale. E ora arriva una tizia, finita chissà perché a dirigere qualcosa in Europa, a dirci che la Turchia non deporta nessuno perché nell’accordo con la Ue non c’è scritto nulla al riguardo!
Ma questo è nulla. Interrogato sulla questione, un giurista ha affermato tempo fa che non si può parlare di deportazioni perché “Il termine implica un atto criminale e utilizzarlo significa quindi ammettere che l’accordo tra Unione Europea e Turchia preveda un crimine”. Assolutamente geniale. Questo esempio di logica deduttiva ricorda una dichiarazione del penultimo presidente della Repubblica, secondo il quale, mentre i nostri aerei bombardavano la Libia, l’Italia non era in guerra perché non aveva dichiarato guerra a nessuno. Ma il citato giurista va oltre. Alla domanda se la Turchia sia uno stato sicuro, risponde di sì. E come si fa a stabilire se uno stato è sicuro? “È tale uno stato che accoglie i migranti in autonomia”. Il nome La Palisse vi dice qualcosa?
Ma non c’è proprio da ridere. Dietro questo formalismo alla Gogol c’è un cinismo terrificante – l’uso delle parole ingessate del diritto per giustificare il rinvio ai mittenti, cioè la guerra, la fame e la morte, di decine di migliaia di esseri umani. Era già successo ai tempi degli accordi che Amato e Pisanu stringevano con quei campioni del diritto di Gheddafi e Ben Ali. Tutti sapevano che i migranti, espulsi in cambio di un po’ di dollari ai governi, finivano nel deserto, vittime di inedia, militari e predoni. Ma poiché nessuno lo diceva, ecco che non era successo nulla.
L’accordo Ue-Erdogan si muove sulla stessa falsariga. Che fine faranno siriani, afghani, pakistani prelevati dalla Turchia? Nessuno lo saprà mai con certezza. Magari Amnesty International verrà a conoscenza di qualcosa e denuncerà i fatti. Ma, poiché l’accordo siglato dalla Ue non prevede nulla del genere, otterremo le solite risposte nel vacuo burocratese citato sopra. D’altra parte, in un’area in cui sarebbero morte cinquecentomila persone in cinque anni, che volete che significhi la sorte di poche migliaia di migranti?
Tempo fa, la signora Frauke Petry, figlia di un pastore protestante e leader del partito xenofobo Alternative für Deutschland, ha dichiarato che bisognerebbe sparare ai migranti che attraversano illegalmente le frontiere. Eccola accontentata. E senza rumore di spari, sangue e inchieste. Ci pensa il nostro alleato Erdogan. Con ciò le mani d’Europa restano immacolate. Come quelle di chi commissiona un delitto a qualcuno e poi se ne va serenamente a cena.