I Bastioni di Orione

Confini minati tra Scambodia e F16-Thai; occhi bianchi a Dar es Salaam; petroliere in fiamme al largo di Caracas

sabato 13 dicembre 2025

«Entrambi i Paesi sono pronti per la pace e per continuare il commercio con gli Stati Uniti d’America», rivela Trump con la consueta retorica entusiasta destinata a venire sbugiardata entro poche settimane dai due contendenti della regione del Mekong, perché i motivi della disputa non sono ancora disinnescati, come ci ha spiegato Emanuele Giordana, e la telefonata a Bangkok fatta dal presidente degli Usa è avvenuta con Anutin Charnvirakul, un premier dimissionario; e soprattutto perché proprio Trump sa bene che il business delle Scam City, dei Bitcoin, delle truffe è un affare troppo grosso, perché la Cambogia possa rinunciarvi, e coinvolge un’area che è feudo cinese ed è attraversata in ogni stato da quel fenomeno di confine.
Contemporanea a una guerra ignorata a lungo finché il numero degli evacuati dal confine tra Thailandia e Cambogia non ha raggiunto il mezzo milione di persone, la nostra attenzione torna a essere attirata da una situazione drammatica, che ancora fatica a trovare spazio tra le breaking news dei network mediatici mondiali (probabilmente perché Trump non ha il numero di Samia Suluhu Hassan), è quella che ci ha raccontato una giovane trovatasi per lavoro a essere
testimone ocularedi un massacro, raccogliendo a Dar es Salaam le notizie dalle strade della Tanzania insanguinate da innumerevoli cadaveri di giovani rivoltosi: la conta è ancora imprecisata dopo 2 settimane dalla mattanza ma si vocifera di più di 2000 morti, alcuni sepolti in fosse comuni, altri desaparecidos; una madre anonima ha raccontato di aver ottenuto le spoglie del figlio solo firmando un foglio in cui attesta che non è stato ucciso da proiettili. Dal suo racconto è palese il distacco tra classe dirigente del partito al potere da più di 60 anni e la popolazione giovane – il paese ha un’età media di 19 anni – che accumulava una rabbia sorda da tempo nel paese esempio di sviluppo per l’Africa, al centro di corridoi commerciali e affacciato strategicamente sull’Oceano Indiano con i suoi porti e le sue infrastrutture.
Come nei due precedenti casi, anche la terza corrispondenza in qualche modo vede contrapposti i rapporti commerciali cinesi alla rapacità americana.
Il terzo quadrante vede il trumpismo protagonista nel suo patio tracero: stavolta ci viene illustrato con sensibilità politica, analisi sofisticata e passione antimperialista da
Simon, un compagno che da Medellin ha tracciato un quadro della crisi venezuelana – e dei motivi di saccheggio di risorse e rieditazione della Dottrina Monroe dopo due secoli che muovono il neoliberismo alla aggressione del regime bolivariano –, ma anche della situazione colombiana a seguito della prima presidenza di una sinistra mai stata istituzionale e delle possibilità di contrastare le mire dei gringos.


Mine offensive e F16 difensivi. I confini alla rovescia delle scam city


La Thailandia investe in armi, la Scambodia in truffe

Improvvisamente il mondo si è accorto che da mesi attorno al triangolo dei confini tra Tailandia, Cambogia, Myanmar la tensione sale. Emanuele Giordana è tra i pochi ad aver segnalato da tempo quel che stava preparandosi e, grazie alla lunghissima frequentazione della regione, è in grado di ricostruire fatti e strategie che spiegano lo scoppio della guerra che da alcuni mesi divide i due regni asiatici
L’attenzione per l’escalation bellica tra Bangkok e Phnom Penh nasce dall’evacuazione forzata di mezzo milione di persone dalle zone limitrofe al confine, ma le motivazioni risalgono a luglio e avevano già visto un’operazione propagandistica di Trump per un finto accordo di “pace” (derubricato dal premier tailandese – oggi dimissionario – a “strada verso la pace”) che già era palesemente traballante a ottobre. 
F-16 tailandesi hanno attaccato obiettivi in territorio cambogiano dopo vittime tailandesi. Artiglieria e lanciarazzi interessano soprattutto Preah Vihear e Oddar Meanchey, con morti civili e la maggior parte di sfollati. Secondo fonti tailandesi, carri T-55 e sistemi RM-70 e BM-21 si muovono verso Krong Samraong. La Royal Thai Air Force ha annunciato la disponibilità a colpire obiettivi militari in profondità in Cambogia, incluse basi militari e depositi di armi e droni. Finora i raid aerei thailandesi sono stati condotti solo nelle aree di confine tra i due paesi. La sproporzione tra le forze in campo aggiunge instabilità. La Thailandia è militarmente più attrezzata: aviazione, mezzi corazzati, artiglieria; alla Cambogia non rimane che una posizione difensiva e droni che possono condurre a un conflitto più ampio nel tempo, se Pechino non decide che non può consentire una guerra in un’area dove fa buoni affari con entrambi i contendenti da quando Bangkok ha capito che può essere conveniente non avere timori di imperialismo peggiore di quello americano, e dunque la Cina può scongiurare l’incancrenirsi ulteriore tra i due regni, minacciando di ritirare investimenti. 
Le operazioni dei due eserciti sono riprese per la denuncia tailandese di nuove pose di mine al confine, già costellato di ordigni risalenti al regime di Pol Pot, ma un’ipotesi che gode di maggiore fondamento va ricercata nel business delle scam city a cui Phnom Penh non intende rinunciare, perché rappresenta il 25% del suo pil. Lo scontro con Bangkok è già costato il posto alla figlia di Shanawatri e ora tocca ad Anutin Charnvirakul, che ha dovuto indire nuove elezioni, rassegnnado le dimissioni del suo debole governo sostenuto dall’opposizione del Partito popolare inviso alla monarchia e ai militari. Il che fa temere qualche colpo di mano.

Irreversibile fine di ogni rapporto tra Tanzanesi e Partito della Rivoluzione

Il 9 dicembre è stato il 64esimo anniversario dell’indipendenza del paese dall’Inghilterra, ma il governo di Samia Suluhu Hassan ha cancellato tutte le cerimonie ufficiali e imposto il divieto assoluto di qualunque tipo di manifestazione pacifica. In strada non ci sono state bandiere nè manifestanti , ma l’esercito armato. Non solo, attraverso avvisi sms di massa inviati alla popolazione la polizia ha chiesto a chiunque di segnalare eventuali possibili attivisti sospetti .Il 29 ottobre scorso, è stato il giorno delle elezioni in cui Samia Hassan ha ottenuto il 98% dei voti; un risultato non attendibile anche perchè sono stati esclusi in anticipo i principali candidati dell’opposizione, tra cui Tundu Lissu di Chadema, arrestato ad aprile. Di fronte alle proteste seguite alla proclamazione dei risultati si è scatenata una repressione sanguinosa un vero e prorio massacro: si parla di oltre 2.000 morti, mentre il governo non ha ancora fornito cifre ufficiali. Sebbene le autorità tanzaniane abbiano bloccato internet per cinque giorni per tentare di impedire la pubblicazione di foto e video delle vittime, queste immagini hanno iniziato ad apparire sui social media pubblicate da attivisti che si trovano all’estero. Arrivano in misura crescente anche segnalazioni di passanti o civili uccisi nelle loro case, quando non rappresentavano alcuna minaccia. 
Il movimento Jumuiya Ni Yetu (La comunità è nostra, in kiswahili) ha  accusato il governo di una campagna deliberata per cancellare le prove delle uccisioni. Ha affermato che gli ospedali sono stati sottoposti a misure di sicurezza rigorose, con le famiglie delle vittime e degli scomparsi “molestate, intimidite e arrestate” per aver cercato informazioni. “Medici e infermieri hanno ricevuto l’ordine di ‘malizare’ (finire ) coloro che erano in terapia intensiva a causa di ferite da arma da fuoco. Gli attivisti ritengono che almeno 2.000 corpi scomparsi segnalati dalle famiglie siano tra quelli sepolti in fosse comuni.
Il silenzio della cosiddetta comunità internazionale di fronte al massacro è stato assordante ,si vuole salvaguardare il flusso di denaro che arriva dai vari progetti infrastrutturali che sono in corso  in Tanzania ,dal porto di Daar es Salam controllato dagli  emiratini alla ferrovia Tazara costruita dai  cinesi alle intersezioni con il corridoio di Lobito.
Ne parliamo con una ragazza italiana di cui preserviamo l’anonimato , rientrata da poco dalla Tanzania dopo un soggiorno di lavoro, testimone degli avvenimenti.


Possibili scenari latinamericani a fronte della nuova Dottrina Monroe: Venezuela e Colombia

Abbiamo colto l’occasione della presenza di due militanti colombiani a radio Blackout per rivolgergli una serie di domande sulla situazione colombiana e la minaccia di aggressione nordamericana contro il Venezuela. E’ emersa una visione realistica della situazione che individua i limiti del progressismo di Petro pur apprezzando certe posizioni sul genocidio in Palestina. Il “pacto historico ” (il partito di  Petro) è in buona sostanza un partito ombrello in cui trovano spazio sia posizioni moderate che radicali con un programma riformista che sicuramente garantisce dei miglioramenti anche nell’agibilità politica sul territorio, ma che non mette in discussione la struttura oligarchica del potere colombiano. 
La minaccia d’invasione nordamericana contro la rivoluzione bolivariana rischia di rivelarsi una pericolosa avventura per gli Stati Uniti ,considerando la reazione che scuoterebbe il continente e le csapacità di mobilitazione del popolo venezuelano.Gli americani non avrebbero difficoltà ad invadere il paese ma potrebbero non essere in grado di garantire i loro obiettivi ,cioè il controllo delle risorse petrolifere e il cambio di regime a Caracas. La rivendicazione di una nuova dottrina Monroe da parte dell’amministrazionde Trump rappresenta la crisi di egemonia degli Stati Uniti che non sono più in grado di sostenere la loro proiezione globale e cercano di recuperare il terreno perduto rispetto alla presenza cinese nella loro sfera d’influenza piu’ prossima , l’America Latina . 

Ecco il resoconto dell’intervista con i due attivisti colombiani. 


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