Sul senso della cartografia e della rappresentazione simbolica dei luoghi
La nascita della cartografia risale a tempi lontani, ma la sua storia è stata intersecata alla storia del dominio fin dalle sue prime forme: con la delimitazione dei possedimenti si è potuto rendere effettiva ed ufficiale la proprietà privata, mentre con la mappatura delle terre scoperte nel corso dei secoli si è potuto imporre con più facilità la conquista militare dell’occidente sul resto del mondo.
Ancora oggi la cartografia moderna, costantemente migliorata grazie alle nuove tecnologie come satelliti e gps, è in mano a delle cerchie ristrette di tecnici (che lavorano per multinazionali hi-tech, Google per prima) e militari che possiedono i mezzi e la disponibilità economica di fare ricerca in questo campo. Per questo motivo, l’atto del mappare non è scevro da interessi economici e da altri secondi fini, ma rispecchia, nel suo processo di creazione, la visione del mondo di chi la produce.
Disegnare una cartina significa semplificare una realtà complessa: un luogo geografico reale viene ridotto ad una rappresentazione simbolica, cioè viene descritto e riassunto nelle sue caratteristiche salienti attraverso un linguaggio astratto. Niente di male in questo, tanto che la mente degli esseri umani e di molti altri animali fa esperienza di questo processo quotidianamente per potersi orientare nello spazio e per “semplificarsi la vita”.
Il problema che proviamo a sollevare in questa puntata però è quello dell’abitudine ad utilizzare le mappe in maniera acritica, ovvero assumere come proprio un linguaggio simbolico creato da qualcun altro; il processo di creazione di tale linguaggio, che abbiamo detto essere una semplificazione di una realtà, comporta inevitabilmente una scelta -tutta politica- su che cosa rappresentare e che cosa trascurare, a seconda delle proprie priorità, esigenze ed interessi.
E’ chiaro che quando utilizziamo una mappa, essa è già pronta, è già stata fabbricata dal sistema in cui viviamo. Ciò significa che siamo stati esclusi dal processo di creazione/semplificazione della realtà, e dunque siamo costretti ad assumere come nostre le priorità di qualun altro: non è un caso che sulle cartine più comuni, gli elementi segnati siano le infrastrutture (strade, autostrade, sentieri, ferrovie), le strutture di ricezione turistica (rifugi, hotel, campeggi), i cosiddetti “punti di interesse” (secondo i canoni del turismo di massa) e così via. Quali sono invece gli elementi esclusi, trascurati? Evidentemente tutte le individualità viventi e non, che non sono di interesse al mercato e al profitto. Ed ecco che, per esempio, interi boschi, con i loro elementi individuali, dove ogni albero ed ogni roccia non è mai uguale e riproducibile, vengono appiattiti ad una vaga e noiosa macchia verde monocromatica. Quando guardiamo una tale cartina, siamo ancora in grado di riconoscere che quella macchia verde è in realtà molto di più, o abbiamo già iniziato ad identificare il reale con il simbolico? Quando ci troveremo in quel bosco, saremo ancora in grado di apprezzarne il valore, le pulsanti individualità che lo compongono, le caratteristiche che lo rendono unico o ci passerà davanti agli occhi come se fosse invisibile solo perché non è segnato come interessante sulla mappa?
L’astrazione simbolica è un processo delicato, che dovrebbe essere personale, indipendente, e che dovrebbe prendere forma in base alle nostre pulsioni e necessità, per mantenere un’autonomia nello scegliere la nostra scala di valori individuale. L’esperienza (unica ed inimitabile) che facciamo del mondo che ci circonda è ciò che dovrebbe spingerci a disegnare le nostre mappe mentali, non i simboli del capitalismo.
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