Cronache dal CPR sardo di Macomer
In questo episodio di Harraga, insieme al prezioso contributo di un compagno dalla Sardegna abbiamo parlato di uno dei CPR più isolati, punitivi ed afflittivi della penisola: quello di Macomer. Nelle ultime settimane sono stati molti gli scioperi della fame, gli episodi di autolesionismo e di proteste dei reclusi, i quali lamentano la scarsità dell’acqua potabile, la qualità scadente del cibo, l’assenza di cure mediche e di assistenza legale; oltre al continuo rinvio delle udienze di convalida, che potrebbero costituire per alcuni uno spiraglio di libertà.
La condizione di isolamento geografico totale e di invisibilizzazione del CPR, sorto dove prima c’era una caserma poi convertita in carcere di massima sicurezza per presunti terroristi islamici, lontano dagli occhi e dal cuore di tutti, è alla base della tortura applicata ai reclusi di Macomer. Nel primo contributo, ci viene raccontata la storia del centro, fino all’attuale gestione per mano di Officine Sociali, che attraverso la figura della direttrice Elizabeth Rijo, proveniente dall’associazionismo sardo, tenta di rabbonire gli animi con false promesse di facciata.
Nel secondo contributo, parliamo di come il centro di Macomer si situi in un contesto di razzismo istituzionale già di per se brutale per le persone immigrate, che spesso arrivano al CPR dal CARA di Monastir, o dalle retate nelle città, quando non per provvedimenti disciplinari da altri CPR italiani, o per la perversa logica dei trasferimenti tra CPR della penisola e quello albanese di Gjader.
In questo quadro, chi si muove in solidarietà alle persone immigrate a Cagliari e chi affronta centinaia di chilometri di strada per portare un saluto fuori dal CPR deve far fronte ad una repressione puntuale, mirata ad impedire ogni tentativo di comunicazione. Una costatazione che non fa altro che rimarcare quanto i legami tra il dentro e il fuori facciano paura, e quanto possa essere importante mantenerli, con costanza e determinazione.