Dai monti del Kurdistan
Chiacchierata a più voci in un villaggio in montagna del Kurdistan Turco, realizzata a fine Marzo 2012.
[audio:https://radioblackout.org/wp-content/uploads/2012/05/IntervistaVillaggioCompleta.mp3|titles=IntervistaVillaggioCompleta]L’opuscolo con l’intervista – edizione Alpi libere – è disponibile, a Torino, presso la distribuzione di Radio Black out, del centro di documentazione Porfido e del centro di documentazione Senza pazienza (al prezzo di 2 euro). Qui di seguito l’introduzione che la precede:
Il testo che segue è la trascrizione di una chiacchierata fatta con un gruppo di ragazzi di una borgata in montagna, nella regione del Kurdistan che si trova nei confini dello Stato turco. È il frutto di un incontro avvenuto durante il viaggio di alcuni compagni nel periodo del Newroz, l’antica festa di origine zoroastriana che ogni 21 marzo celebra, con l’inizio della primavera, una sorta di capodanno, di risveglio, occasione per la rivendicazione dell’identità del popolo curdo e della sua vitalità e resistenza.
Come sottolineano loro stessi alla fine del discorso, gli amici intervistati non sono dei militanti politici, né dei teorici e nemmeno dei guerriglieri. Ma il fatto di essere dei semplici montanari non esclude che essi siano o possano essere, in un certo senso, un po’ tutte e tre le cose. Ragazzi qualsiasi, infatti, ma dalle cui parole emerge chiaramente l’alto livello di partecipazione alla lotta, di consapevolezza del dibattito politico, così come della vicinanza e internità al mondo della resistenza armata.
Il solo fatto che il PKK rappresenti, in questa fase storica e in un’area del pianeta a noi tutto sommato vicina, l’ultimo movimento di guerriglia popolare, esteso, vitale e radicato, dovrebbe rendere evidenti le ragioni per cui riteniamo di grande interesse confrontarcisi e saperne di più. Questo dovrebbe risultare ovvio per chiunque si ponga, di fronte all’incedere dei disastri e delle ingiustizie della civiltà capitalista, nell’ottica di un suo superamento radicale e rivoluzionario.
Dalle parole di questi amici incontrati sul nostro cammino – oltre che dai loro sguardi e dalle loro vite, difficilmente trascrivibili – emergono problemi e prospettive profondamente in sintonia con i nostri. Nonostante le ovvie distanze, derivanti dai diversi contesti storici e geopolitici, non ci accomunano soltanto la coscienza di aver gli stessi nemici (gli Stati nazione e lo sfruttamento capitalista, innanzitutto), ma anche le comuni tensioni che stanno alla base delle possibilità individuate per il loro abbattimento.
Il rifiuto della rivendicazione di un nuovo Stato nazione e di nuove frontiere; la proposta di una federazione di comunità di villaggi che travalichi i confini nazionali; la centralità data alla “partecipazione popolare” come riduzione all’indispensabile dei meccanismi della delega; l’orizzontalità nei processi decisionali… L’egualitarismo e la lotta contro i residui di tradizioni oppressive e patriarcali; la strenua difesa del proprio patrimonio linguistico, storico e culturale, ma nel rifiuto di ogni identitarismo escludente…
Cosa ancor più significativa, tutte queste istanze non sono un discorso politico astratto, ma il campo di battaglia quotidiano, il tentativo di organizzare, qui e ora, una struttura confederale, un coordinamento reale tra paesi, quartieri, collettivi, alternativo a quello dello Stato centrale e volto a delegittimarne e scalzarne la presenza. E così è anche sul piano del conflitto “in montagna”, dove il PKK sta tentando di coniugare la resistenza armata con la pratica al proprio interno di un modello di vita e di organizzazione alternativo a quello capitalista. La guerriglia, cioè, non è vissuta soltanto come uno strumento militare, di attacco o di difesa, ma anche come un’opportunità per sperimentare in territori parzialmente liberati rapporti sociali diversi da quelli dominanti.
Queste sono le tensioni, profonde e viscerali, che abbiamo sentito prevalere negli uomini e nelle donne del popolo curdo che combatte. E ciò al di là dei termini con cui queste tensioni vengono espresse, che spesso possono stridere nel linguaggio politico cui siamo abituati (come il termine «democrazia»). Ciò non può giustificare il disinteresse o addirittura la diffidenza che troppo spesso i movimenti rivoluzionari in Occidente riservano alla lotta del popolo curdo e non solo. Una diffidenza che a nostro avviso deriva più che altro da un cronico eurocentrismo e senso di superiorità che, in particolare in ambito radicale e libertario, segnano l’approccio alle lotte per l’autodeterminazione dei cosiddetti «popoli senza Stato». Ma crediamo che anche chi non avesse interesse alcuno ad allargare il proprio sguardo oltre i conflitti che lacerano le metropoli occidentali, avrebbe tutti i motivi per confrontarsi con quelle esperienze e quelle lotte da cui gran parte dei “nuovi proletari” d’Occidente provengono.
Chiaramente, poi, quello che i curdi riusciranno effettivamente a realizzare è un’altra storia, che non dipende solo da loro. Dipende anche, e forse soprattutto, da quanto lo Stato turco continuerà a ricevere il sostegno dei governi occidentali grazie all’indifferenza dei loro “cittadini”. I curdi ce la stanno mettendo tutta per conquistare sul campo una vita diversa, su questo non ci piove. E su quel campo non crediamo proprio di aver le carte in regola per poter andare in giro a dar lezioni. Anzi. In particolare per noi – che come «Alpi libere» abbiamo individuato nel territorio che abitiamo, la montagna, l’ambito di intervento privilegiato per sperimentare percorsi di resistenza e liberazione – il confronto con simili esperienze costituisce un bagaglio di stimoli e conoscenze più che mai utile e prezioso.
Alpi libere – fine aprile 2012