Arthur Russell: another thought
Potrò permettermi una divagazione personalistica, no?
Una delle stelle più brillanti, ad un certo punto, ha preso fuoco ed è sparita.
Poteva essere il musicista di maggior successo di una intera stagione, bastava seguire la giusta intonazione e lasciarsi andare a scrivere canzoni, magari facendo qualche piccola concessione. Tanto sarebbe bastato per tasche piene e futuro certo.
Ma Arthur Russell non si è mai conformato. Avrebbe potuto e non ha fatto.
Icona gay (suo malgrado), chansonnier, cellista, sognatore e compositore pop tra i più fragili e intensi di una intera decade ha lottato per 20 anni contro un certo conformismo, non solo musicale. In mezzo a tutto ciò la fine dei 70, l’emersione della discomusic, l’aids, la lotta per l’emancipazione dell’amore non conformato.
Arthur era lì con la sua voce. Studia con Ali Akbar Khan, frequenta Allen Ginsberg. Dentro di sè una tempesta continua, una inadeguatezza che non tarderà a manifestarsi.
Per il sottoscritto è stata la colonna sonora di anni storti, dai quali sbucava spesso quella sua voce capace di scavarti dentro, non importa con che accompagnamento.
Russell per me è stato capace, più di chiunque altro di cantare i sentimenti incompresi, il momento dell’abbandono, la luce alla fine dell’amore.
Cercava la chiave della pop music, trovò migliaia di fan postumi e una morte nelle braccia dell’eroina. Era il 1992. Ne morirono tanti, di Aids. Le porte di questo mondo si chiudevano su una delle voci più grandi e su uno dei cuori più straziati del lower east side. La scia luminosa durerà fino ad una nuova sterzata, capace di iscriverlo, anche per il consesso triste della stampa specializzata, nell’olimpo dei compositori “non colti”: nel 2008, per gentile concessione di Lee (figura feticcio della nowave newyorkese e compagno di Arthur) esce una compilazione dell’altro lato, crooneristica, con accenti country e ballads da chiodi. E’ l’altro volto di Arthur, quello di un alchimista che ha dedicato la vita a cercare. Basterebbero questa e gli strumentali (anch’essi postumi) raccolti su “First Thought, best thought” per certificarne la grandezza. Sono dischi diversi, il primo che sembra Nick Drake con un debole per l’Ammerica, il secondo musica da camera in virata dolcemente psichedelica come l’avrebbe amata, che so, Terry Ryley. Questo non è un epitaffio, è un consiglio: Buttate via buona parte dei vostri dischi indie, fatemi il piacere. Chapeau.
Arthur Russell – First Thought, Best Thought (Rough Trade 2006). Non me ne fotte un cazzo che Philip Glass lo ammirasse. Questa è composizione pop al massimo livello, tanto che è difficile recensirlo. Il bagaglio che mi porto sulla schiena con Russell è una madeleine continua, come passeggiare indietro nel passato assieme al tape recorder dei suoni che amavi. Ci sento dentro minimalismo e melodie facili, la storia infinita dell’amore ai tempi del supermercato. E’ la cronaca di un mondo spietato che ti uccide morbidamente mentre ti sta amando. Un devastante abbraccio mortale tra le nuvole, a livello emotivo ogni volta è come la prima.
Arthur Russell – Love is overtaking me (Audika 2008)
Altri brividi. Questa volta però si tratta di materiale recuperato, nato, chissà, come divertissement sulla formula pop. Di pop qui c’è solo l’odore. Il resto è la classe cristallina di un formidabile genio che ci regala le radiografie del suo stato interiore con la complicità di pochi, calibratissimi gesti. A volte la sua voce mi ricorda Roy Harper o i suoi pezzi quelli di un Drake un po’ meno depresso. Ma riascoltandoli emergono i dettagli. Quelli che ti fanno capire. Sono più di 20 tracce, tutte splendide. Vorrei dire “janine” solo perchè è quella che mi ha fatto più volte tuffare il cuore. Ascoltatelo con qualcuno che amate, per favore.