I boschi del Maine – Thoureau e la verde psichedelia
Cab Mulekin e Coleen Kinsella vivono da sempre nei boschi del Maine con i figli, alcuni cani e molta marijuana. Come Thoureau (a parte la ganja a quanto ne so), di cui si può dire, costituiscano una credibile costola musicale.
Da una quindicina d’anni, più o meno, gestiscono la colorata famiglia “Dontrustheruin, bislacca etichetta dedita a sognare una Arcadia oscura di fricchettonismi e space blues a sfondo rurale. Anni di tentativi dai boschi che Thoureau amava per il mistero che sapevano custodire: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.”
Esce in questi giorni “Unlikely Mothers” il disco che i Big Blood (e sopratutto Coleen) dedicano alla improbabile (unlikely) madre (ex suora) di lei. Taccio sul celibato delle suore e vado avanti: dicono che ci è voluto un anno di preparazione, chiusi in casa ad ascoltare Black Sabbath, Diamanda Galas e Dead Moon. Con questo piccolo sforzo aprono le porte della percezione a quei sordi che ancora non hanno annodato le loro trecce al ritmo pow wow di una band che posso dire è ormai irrangiungibile, perchè con il suono ha tipizzato uno stato mentale, un odore (forte e d’erba), un umore. Se ci capita di chiamare Bic la penna biro, allo stesso modo possiamo chiamare il nuovo weird rock psichedelico a tinte pastoral blues, con il nome Big Blood.
Il disco è devastante. Non un pezzo sotto i 5 minuti, odore di fumo spesso che si leva dalla boscaglia, il tutto guidato dalla voce serpentesca di Coleen. Come ha scritto qualcuno, quando accadono cose del genere, siamo tutti felici di ridimensionare certi culti, magari improvvisi, sbocciati e fioriti senza però tutta la necessaria potenza per essere considerati tali per più di un dì.
Se paragonate ad esempio questo disco ad uno a caso dei due Goat (svedesi nel villaggio africano etc etc) li mandate a casa con le ossa rotte e le maschere accartocciate. Tanto per dire che anche per il culto c’è bisogno di tempo e preparazione: non basta la maschera per dirsi stregoni.
Io ho già issato bandiera nera sul mio space shuttle. Ho blindato le finestre. Fuori il fuoco zampilla gli ultimi schiocchi di brace. E i Big Blood girano a manetta nello stereo. Mi associo a chi consigliava la lettura di Austin Osman Spare. Se ci verrete a cercare, non ci troverete. A meno di non setacciare palmo a palmo i boschi.
Walden – discografia selezionata da una nuova comunità
Tra cd-r, cassettine, dischi fatti per essere regalati agli amici, non è facile sfoltire il fitto denso groviglio di casa Big Blood.
Forse per iniziarCI direi “Fight for your dinner vol.1“, uscito quest’anno, raccoglie le versioni strampalate (ancora più del solito), le rarità e le cover di un periodo lungo sette anni. Non proprio la porta d’accesso più agevole verso questo mondo incantato ma la pozione va bevuta tutta e subito. E’ un mondo arcaico scosso da venti sibilanti dove gli uomini sono pedine stupite che si dedicano a celebrazioni pagane (o religiose, chissà) dell’antico, dell’ignoto e del rurale. Su tutto trionfa la voce di Coleen, la vera Grace Slick delle foreste centramericane. Se amate il blues psichedelico e i rumori che fa la natura, accattatevill. Se cercate rassicurazioni dalla musica, statene alla larga.
Una volta svezzati, potreste passare a “Dead Songs“, uscito nel 2010, sempre su dontrustheruin, etichetta di casa. QUesta volta i due staccano la spina e si confrontano con l’old time folk. A qualcuno non è piaciuto, a me moltissimo. Si tratta di musiche per la catastrofe, quando l’energia finirà e il futuro sarà la riproduzione di un passato primitivo e selvaggio. Un piccolo tesoro di old time music da portarsi dietro durante qualche vagabondaggio in cerca di funghi.
Per completare la tripletta risalgo la china fino al 2006, anno in cui, sempre per la scuderia (?) di casa, esce “Strange Maine“.
Summa della poetica del duo, è una cesta di pezzi bellissimi, legni grezzi appena restituiti al nostro orecchio da creature silvane, sensibili allo scuotere del rock come all’ondeggiare impercettibile delle querce. Sempre loro due, sempre silenziosamente, sempre e comunque distanti da qualsivoglia compromesso con un consumismo che anche nella musica ha deforestato e distrutto tutto, o quasi. Chissà come la vedono adesso la questione, queli delle etichette “fighe”.