I sing the desert electric
Sono anni che si parla di desert blues. Perchè l’occidentale è malato della sindrome di Cristoforo Colombo e tende a rivendicare come propria qualsiasi cosa abbia scoperto (per poi rivendersela e come è andata a finiere lo sapete tutti….)
Dan Auerbach ha fatto i soldi sfruttando l’immagine e il suono del deserto – che grossolana approsimazione, Dan – martirizzando Bombino nel tritatutto consumista. Una semplificazione che sarebbe come dire che il suono italiano è Domenico Modugno. Una semplificazione che cristallizza, per fruitori superficiali, l’hic et nunc in un’ambra accomodante. Se guardate un tappeto non saprete mai se è falso, tessuto in cina oppure teso a mano. Pensate che per girare il deserto da casa vi basterà inserire nel lettore il cd. E così capirete. Solo che Auerbach non è mai sceso nel deserto. Niente dune spazzate dal ghibli, niente motociclette veloci, niente vestiti blu come il cielo, niente cammelli. Ha scoperto (per così dire) e ha immediatamente rivenduto ad un pubblico inebetito dai decaloghi “hipster” e massacrato da tanta voglia di esotico. Ha trasformato “qualcosa” in buoni acquisto su spotify, in materiale per carte di credito. Ha liofilizzato all’estremo la materia viva. L’ha inscatolata. Ma puoi inscatolare l’aria del deserto?
C’è qualcuno invece che non si rassegna all’idea che Niger, Senegal, Mali, Mauritania, e Western Sahara siano diventati uno stato mentale in 2d dove qualsiasi bullo americano può proiettare la sua idea di melting pot e ridere con gli amici di quelle tuniche. La globalizzazione è razzista perchè semplifica all’estremo, riducendo gli spigoli e le impuntature. Qualcosa di impalpabile come la sabbia fine e fluido come un aliseo tende in quest’area grande come parte dell’europa occidentale le invisibili corde della tradizione. Dopo tutto non dobbiamo dimenticarci, anche se la distopia web ci induce a farlo, che gli abitanti del Sahara non sono stati per fortuna ancora sterminati. Sono lì e nell’impasto, ingrediente principe resta la musica.
Oltre, ci sono 9 milioni di kmq di hammada piatto come un asse ma ricco di insidie mortali ad ogni angolo. Su questo scacchiere sarawi, marabutti, Hausa, gente del Benin si sposta con l’orecchio al cellulare. Questo è l’unico posto dove il formato di trasferimento musicale non è l’mp3. Berberi per semplificazione, le genti non stanziali desiderano una maggiore connessione con il mondo ancestrale anche attraverso le nuove tecnologie. Dalle cassette impolverate negli stall market lungo le vie dei cammelli si è rapidamente passati ad un mercato (molto local) che compone e registra “per cellulare”. Ma è una via dolce al globale. Qualcosa che dal globale prende per sfruttare a proprio uso. Potete concordare o meno ma credo che la diffusione del telefonino nel Sahara abbia una importanza capitale. Alla faccia di Auerbach.
Nelle pieghe del deserto, dove genti armate difendono inospitali riquadri di nulla, nuovi giovani, figli del conflitto ma non della rassegnazione, danno vita a qualcosa che spiega solo attraverso l’ascolto il vero senso di SAHARA, luogo delle genti.
Che ancora una volta arrivi a noi con un medium non locale, significa che tratta di joint venture, non necessariamente (per una volta!) d’una nuova dialettica sfruttatori/sfruttati.
Il lavoro della sahelsounds, quello di giovani e meno giovani con chitarre, microfoni rumorosi, tastiere che qui non trovi nepure nella munnizza, sta aprendo nuove vie carovaniere. Ieri come oggi, ma più lievemente. Molti, non lo nego, cercheranno una via verso l’europa ed una vita migliore, magari nella musica. Ai disillusi che rimangono nell’altro emisfero ad osservare il tropico del cancro che schianta il cielo contro la sabbia, nuove sfide che intrecciano geopolitica e musica pongono in contraddizione i confini e aggiornano la storia più di qualsiasi confine tangibile. lunga vita alle genti delle sabbie.
una bella storia.
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