Il disgelo

Correre nella neve è una delle attività fisiche più difficili e frustranti che ti possano capitare. Soprattutto se ad ogni passo rischi di sprofondare fino alle ascelle. Devi cercare di coordinare il baricentro del corpo, per non imporre troppo peso in poco spazio. Allo stesso tempo devi cercare di non congelarti mani e coglioni senza farti invadere dalla paranoia che lo siano già.
E’ triste dirlo ma odio la neve. Le settimane bianche, gli skylift, le code di gente vestita da bibendus in attesa di qualche minuto in gloria. Mi fa vomitare il bombardino, se bevo il punch lo sputo. Detesto l’abbronzatura, la polenta scadente, occhiali specchio,  chalet di legno che contengono solo tristezza e domeniche in coda per il rientro, tutti chiusi nelle gabbie di ferro.
Per un misantropo, una settimana di lavoro sulla neve può equivalere ad una punizione. La questione è, come al solito, di sopravvivenza. Per superare la buriana del tempo impossibile (7 giorni a 0 gradi mentre buona parte degli amici fondovalle se la scialava nei dehors o a mollo sui lungofiumi bevendo pastis da consumati maquisards), oltre ad una serie di pozioni e preparati per distillare il tempo alla moda agostiniana (distensio animi) rendendolo filante come un chewingum spiaccicato, ho avuto il conforto dei dischi che, imprudentemente avevo selezionato per il viaggio.
E’ sempre difficile avere un’idea preventiva di cosa vorrai ascoltare quando ne avrai proprio bisogno e il rischio di sbagliare può costare caro. Mi ricordo fin troppo bene certi fine agosto al mare dai nonni, che si chiedevano con preoccpuazione come mai fossi di indole così introversa. Avevo con me un kit di cassettine già fatte piene solo di no-wave ammazzatutti, con Mars, DNA, Teenage Jesus & The Jerks, Chrome. Le estati anzichè piatte e sfumate dalla calura trascorrevano nervose ai limiti dell’epilessia, tra corde scordate, urla e rock fratturato. Respingevo le compagnie dei vitellini fuggendo in bicicletta nell’entroterra, mentre Arto Linsday continuava a torturarmi le orecchie, producendo in me una storpiatura del reale che mutava pian piano i cipressi della campagna toscana in pali della luce, il giorno in notte, la dolcezza in furia. Pensavo e ripensavo a quella storia dei brigatisti che rapiscono Lee Dozier e durante la prigionia lo torturano (così si dice, ma forse è una leggenda) con massiccie dosi di no-ny e diventavo un ragazzino sempre più chiuso, che alle legnate con i suoi coetanei o a qualche timido limone, preferiva massacrare una elettrica da 10 euro attraverso il suo primo distorsore.
Altre volte è andata anche peggio. Ricordo due notti in areoporto a Luton senza una lira in compagnia di uno zaino e di alcune compilazioni di japanoise appena recuperate in un trift-shop londinese. La paranoia dei controlli post 11/9 e la musica di Onsen Violent Geisha condizionava lentamente i miei pensieri. Cinture esplosive, virus mutanti inseriti nei condotti dell’aria condizionata, gas sarin, tuffi di massa degli allievi della chiesa solare, violenza dappertutto. Una notte insonne, domande non risposte da parte di uno zelante sbirro areo-portuale e tanti incubi come lividi non assorbiti.
Al contrario, l’eccessiva mollezza può uccidere ogni fantasia. Altro ricordo preciso delle mie masturbazioni mentali è stato l’infogno con la chamber music. Un intero mese solo a casa di mio padre a riprendere i suoi dischi, immedesimato totalmente in un intellettuale della scapigliatura tardoottocentesca che si dedica ai vizi domestici come ne “il giovin signore di Parini” prima di incendiare la casa con sè stesso dentro alla ricerca di una purificazione da quella vita in cromo-copia. E’ successo anche questo.

Da allora quando viaggio o sono lontano per un lungo periodo, cerco di non pensare a cosa vorrei e mi tengo prudentemente sul margine delle musiche note. Le 7 note. Quelle che sono imprevedibili e possono spazzarti via agganciando un pensiero, un odore. Sono un proustiano che sta cercando di sconfiggere proust. Da oggi non faccio più programmi, anzi da ieri. Scelgo delle cose a caso e le provo. Lascio che sia la musica ad indicare il percorso. E questa è la colonna sonora della mia fottuta settimana bianca di lavoro.

Brian Eno & Robert Fripp – Equatorial Stars (reissue 2015)
Notti stellate sotto il cielo equatoriale. Misteri del cosmo che si aprono al tocco delle dita. Strumenti elettronici incastrano rapidi bagliori appena accennati. Frippertronica + ambient music in un viaggio che sa essere anche funky. Ideale per un bianco manto di neve o per contare i granelli della sabbia più fine del mondo come nella doccia tropicale della famosa pubblicità.

Anna Caragnano & Donato Dozzy – Sintetizzatrice

(2015)
Ho sempre pensato alla voce come ad uno strumento. Allo strumento primordiale. Quando Donato mi ha chiamata comunicandomi la sua idea confesso di non aver intuito la direzione che avrebbe potuto prendere Sintetizzatrice, però man mano che i suoni andavano aggrovigliandosi e i pensieri dissolvendosi, mi sono lasciata andare ed è lì che si è creata la vera alchimia. Non si può vivere e guardarsi vivere contemporaneamente.”
Così diceva Anna quando incontrava Donato per dare vita a qualcosa di sconvolgente nella sua assoluta semplicità. Solo la voce, processata da un muro di filtri elettronici, diventa carne, racconto e vivida presenza. Questo è un incontro misterico, da abbinare certamente a Sud e Magia di Giovanni de Martino. Imprevedibile, evocativo e cosmico, è già un disco dell’anno: immaginate Demetrio Stratos processato da una versione italiana dei Popol Vuh.

Disappears – Irreal (2015)
Tra post-rock, post kraut e una Chicago inquietante, immortalata nel gelo dei suoni, questo quartetto fa il botto. Tra tribalismi, percussioni ed evidenti sfilacciamenti da collasso del rock, produce una musica pop che agli ascolti ti entra sottopelle come un virus. Se vi sono piaciuti i Neptune, questi sono il fratello più educato al quale le medicine fanno ancora un po’ effetto. Attendiamo sviluppi, soprattutto rispetto alle sezioni più ostiche. intanto ce lo godiamo nervosamente.

Mahmoud Awad- Sheik to the Future (2015)
Se il profeta Maometto avesse saputo come sarebbe diventata la musica del 2015, forse avrebbe dettato qualche sura in più del suo corano per vietare cose come questo “sheik to the future”: un lavoro inclassificabile che si situa in quota Residents ma trasferiti nel delirio hash-ido della Marrakech a.d 2038, tra salmi deformati e sintetizzatori ridotti a granuli come in seguito all’esplosione di un missile. Lo Sceicco del terrore propende per una soluzione tossica del conflitto, per cui se cercate spunti di fantascienza malata in salsa arabica piccante, eccola qui.

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