Schweizer Aroma – folklore alpino e avanguardia da camera con stube
Svizzera.
verdeggianti montagne incorniciano come in quadro piccoli paesi perfetti nel loro rigore nazista. Squallidi truffatori in colletto bianco si fanno aiutare da abili spalloni a ripulire soldi oltre-confine. Un bambino biondo lancia una palla oltre la staccionata. Molti suv. A questa schifosa sfilza di luoghi comuni possiamo aggiungere cioccolata, croce rossa, orologi a cucù e prostituzione. Ah sì anche il jazz.
Gli svizzeri si sa, se lo tengono parecchio per sè. Neutralità e isolamento sono le porte da forzare per penetrare nel segreto elvetico, in qualunque campo. Dal 1967 Svizzera e Jazz si leggono Montreux. Da Nina Simone a Jan Garbarek tutti quelli che hanno scritto le più celebri pagine del jazz, sono venuti qui a guadagnarsi le stimmate dell’immortalità. Se c’è una cosa che detesto sono le celebrazioni e il triste cibo pre-masticato. E così che anche il jazz può diventare un luogo comune. Può prestarsi ad un appiattimento da globalizzazione inoltrata, staticizzandosi in una immagine fissa di sè, come una crosta di calcare nel rubinetto. Il jazz in svizzera in parte lo è stato e ancora lo è. una crosta sul rubinetto della libera creatività che talvolta non fa fluire libere le acque. Tirato da una parte da sponsors ricchissimi e da “appassionati” la cui età avanza di giorno in giorno, oppure venduto a tranci per ascoltatori sempre meno attenti, anche il vecchio caro gezz rischia una lenta e inesorabile de-colorazione, diretto verso una miscela preconfezionata e liofilizzata di suoni che ricordano quella musica, ma che in realtà ne sono solo l’involucro vuoto. Tanti sono i festival gloriosi del passato che oggi offrono solo miseria, vecchiaia e tristi clichè.
Ma il jazz in svizzera non è solo Montreux e – cosa ben più importante – non è un triste decotto per vecchi collezionisti di auto bugatti, non è cachet miloionari, non è il prezzo del biglietto per una sveltina con qualche anziano in pailletes a montreux, non è nemmeno l’impomatata radio pubblica svizzera. Per avere qualche brivido, si sa, bisogna arrampicarsi sulle Alpi orientali. Sarà l’altitudine a dare l’ebbrezza, ma sembra che dalle terre basse siano scappati tutti quelli che tra gli ottanta e i novanta hanno ri-animato il quasi cadavere svizzero con massicce dosi di tradizione. Sembra che si siano ritirati in baite dove manca l’ossigeno.
Viaggiando con Huber ho scoperto che in ogni montagna ci sono strade secondarie, o ripidi sentieri dove la gente non passa mai, nemmeno la domenica. Uno di questi lo abbiamo imboccato con un obiettivo preciso. Fare chiarezza sul mondo del jazz tra le baite alpine. Follia? affatto. L’idea è affermare che NON si possono tracciare luoghi comuni, neanche nella iconica terra dei san bernardo.
Stiamo per incontrare Hans Hassler, faccione barbuto da babbo natale, attitudine alcolica e fisarmonica facile. Lo incontriamo per una ricognizione in quello che, parafrasando uno dei suoi lavori del passato, possiamo chiamare “the new alpine jazz herd”.
Hassler è come sembra e ti sembra che sia così da qualche centinaio di anni. Potresti trovarlo in istato di intossicazione alcolica a far sudare i polpastrelli in qualche stuba dall’ossigeno ormai rarefatto, oppure a ragionare con pacatezza sul senso della vita. Hassler è la reincarnazione del pastore elvetico nel corpo di un musicista dalla sensibilità elevata. (nell’accademia si preferisce il termine “orecchio”, con un pizzico di snobismo verso tutti colore che non ce l’hanno…) Sembra che sui nastri magnetici custoditi nel suo cranio sia stata registrata musica antichissima e immutabile.
Nato sulle alpi orientali di Graubünden, da allora ha suonato di tutto, dal free jazz alla musica folklorica, passando per la musica da film, fino alle sagre contadine. Virtuoso del Schwyzerörgeli (un organetto diatonico simile ad una fisa ridotta, esistente solo in quella parte della svizzera) ha mescolato ironia, buonuomore e sbronze ai traditional d’alpeggio, restituendo al jazz e al folklore una dimensione insieme cameristica e intellettuale, pur non privata della sua componente terrena: la vita che scorre, i pascoli, il vino e la grappa, l’amore, il tempo che passa. Tra un campanaccio da vacca e un sax tenore possono nascere infinite storie d’amore.
Esce in questo 2014 per INtakt (un locus amoenus l’etichetta svizzera, se amate i “diversivi” e le variazioni sul tema è un must assoluto) il disco omonimo ed entra, senza bussare nei dischi dell’anno.
Perchè Hassler, come molti altri spiriti gentili da me amati e a lui affini, ha il gusto sempiterno del “classico”, senza che ciò significhi piegarsi sugli spartiti o menarsela da “avanguardista”. Ve ne accorgerete ascoltando. C’è la classica differenza tra un prodotto industriale e il genepy che faccio in casa. La ricetta è la stessa di 500 anni fa, la sensibilità è moderna. Sono gusti che nel liofilizzato a largo consumo non troverete mai. Se c’è un legame tra le musiche folkloriche antiche, quelle delle tradizioni orali alpine e il jazz, lo ritrovo nell’amore e nella devozione con cui questi musicisti si approcciano al suono. Senza storronarci con il revival puro, iniettano nel corpo mortificato del folklore dosi di ironia da bar, divagazioni sull’orlo del precipizio free, alternando veloci discese a lunghe salite, la marcia al riposo, la stasi al moto.
In compagnia di Hassler cercheremo di tracciare una linea nel tempo, da Heidi al New Alpine Jazz Herd. C’è una fiume incontrollato di gioia di vivere che scorre sotterraneo. Non me ne vogliano gli integralisti del folklore, ma con Hassler siamo su altri pianeti. Chissà cosa ci riserverà il futuro: la sfida di questo folklore dotto è anche ambientalista, parla di un ritorno alle tradizioni senza dimenticare il presente. Propone una visione bucolica della vita senza accenni fricchettoni. Riscoprire il piacere di guardare un panorama, bevendo vino e saltellando. Quando la guida alpina è Hassler, il divertimento è garantito. altri mondi, i monti. Solo dall’alto puoi capire il panorama.
Dalla svizzera con furore. una mini-discografia non ragionata sul free jazz alpino:
Hans Hassler – St [Intakt 2014]. Difficile recensirlo. Pensate ad un buontempone alla dott. Chadoula impiegato in un trio a bassa densità sul tema della tradizione svizzera. Dimenticate però lo yodel. Questa è avanguardia senza ossigeno ma ad alto tasso alcolico.
Adatto per una passeggiata in quota, piantare verdure nell’orto, pascolare animali e per chi non ama prendersi troppo sul serio.
Alpine Jazz Herd – Swiss Flavor [Unit 1983]: il testamento del jazz alpino. Insuperabile per rarefazione, starnazzate e originalità. Hassler è presente insieme ai migliori improvvisatori alpini. Se fossero riusciti a scendere dai monti avrebero sconfitto montreux. Glorie outsider, per fan della Globe Unity Orchestra a ranghi ridotti e dell’escursionismo naturista.
Habariani – Two [Hat Art 1991]: organo diatonico, clarinetto basso, trombone. Più fedele di una cartolina da Chiasso, questa è ambient melodica sulle impronte della tradizione che vi farà guardare lontano. Instant classic da mettere vicino ai lavori più rarefatti di paul bley e giuffre. Sempre senza tralasciare il folklore alpino. Urge ristampa perdio!!
Gebhard Ullmann Jurgen Kupke & Michael Thieke – The Clarinet Trio 4 [Leo 2012]: anche se non siamo del tutto in Svizzera, beh che dire, questo uscito per Leo nel 2012 è un viaggione, ammesso e non concesso che amiate viaggiare leggeri. Ve lo consiglio ma attenti: se cercate arrangiamenti bandistici, percussionismi o swingate, qui non li troverete. Puro clarinetto, in tutte le sue forme. Amato da Hassler con cui Ullmann collabora all’ultimo disco uscito per Intakt (vedi sopra).