Milano 15 dicembre. Fedez gira in Lamborghini a caccia di “cinque poveri” cui regalare uno dei cinquemila euro, che dichiara di aver raccolto tra gli amici.
É un’immagine iconica dei tempi che viviamo, lo specchio delle politiche del governo, che elargisce elemosine per garantirsi la pace sociale, fa girare la giostra del consumo a palla, prima di richiudere le strade, quando l’orgia dello shopping natalizio si sarà esaurita.
Non solo. Conte cii vuole complici nel riconoscere che è colpa dei cattivi bambini se tutti sono stati messi in castigo a Natale.
Sullo sfondo resta la città reale, quella dove in pieno dicembre i poveri che nella cartolina di Fedez non potrebbero mai trovare posto, vengono cacciati da due baracchine di lamiera, che davano riparo dal freddo ad una decina di persone.
É la cifra dei tempi: non esiste povertà incolpevole e quindi le ruspe moralizzatrici possono agire nell’indifferenza dei più, tra il plauso dei tanti.
In questo clima, dove il luccichio delle vetrine, non nasconde la paura sorda di chi, ogni giorno, è obbligato a lavorare per campare la vita, si sono dipanate le tante iniziative per tenere viva la memoria dell’anarchico Giuseppe Pinelli, assassinato nei locali della Questura nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana.
Non un esercizio di retorica ma di concreta condivisione di lotte e percorsi. Nella serata del 14, di fronte allo spazio Micene e poi alla casa da dove Pino Pinelli uscì per non tornare mai più, si è tenuto un presidio.
Il filo della criminalità del potere, si è dipanato sino ai giorni nostri. I 14 detenuti ammazzati durante la rivolta carceraria di marzo, i morti nel Mediterraneo, la stessa pandemia sono alcuni dei tasselli che compongono il mosaico.
Ne abbiamo parlato con Alberto, un compagno di Milano
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