La concezione anarchica del vivente

“La concezione anarchica del vivente” è il titolo del libro, uscito nel 2021 per Elèuthera, di Jean-Jacques Kupiec, biologo francese che da tempo lavora nel campo della genetica. Proprio questa branca della scienza, all’interno del libro, è posta sotto l’occhio critico nei suoi concetti fondamentali e nelle sue basi teoriche per capirne le origini, le contraddizioni, ed il posizionamento filosofico che ancora oggi assume.

Alla base della genetica si trova infatti l’idea che il mondo del vivente sia intrinsecamente ordinato e che le forme con cui si manifesta risiedano nell’informazione genetica presente nel DNA, che, come una ricetta, descrive gli individui nei loro caratteri fisici (e non solo). I portatori di queste informazioni sarebbero i geni, i quali vanterebbero una correlazione causale con i caratteri espressi da ogni individuo. Successivamente, anche grazie a diversi studi scientifici, si è arrivati a formulare una teoria più morbida, l’epigenetica, riconsiderando come più complessa (non così rigidamente causale 1:1) la relazione tra gene e carattere, e riconoscendo un ruolo importante all’ambiente e alle condizioni esterne all’organismo nel modificare i geni ed il fenotipo.

L’idea sostenuta da Kupiec si spinge ancora più in là, e mette in discussione i concetti stessi di “gene”, di “carattere” e di “specie”, evidenziando come risultino essere più degli strumenti teorici che delle entità biologiche reali. Infatti, se il DNA è difficilmente scomponibile in pezzi distinti (come dovrebbero essere i geni), allo stesso modo anche le caratteristiche fisiche di un individuo sono difficilmente separabili e differenziabili l’una dall’altra (come se si trattasse di pezzi di una macchina e non di un insieme denso di relazioni); lo stesso si può dire della categorizzazione del vivente che lo suddivide in specie diverse, e che non chiarisce davvero dove si ponga questa linea di demarcazione.

Ma allora, se questi termini esprimono concetti arbitrari, perché vi siamo così strenuamente legati? Il loro ruolo è quello di “mettere in ordine il mondo” e portare avanti l’idea che il vivente segua un progetto o un piano d’azione ben definito fin dalla sua origine. In questa maniera, le forme di vita non solo hanno uno scopo e una direzione, ma sono anche in qualche modo programmabili, prevedibili e manipolabili.

Al posto di questa visione deterministica, l’autore propone un modello darwinista-anarchico in cui l’essenza primaria del vivente è proprio la variabilità, ovvero una variazione probabilistica (che non significa irrazionale) delle caratteristiche con cui si manifesta. In questo modello, le cellule vivono per se stesse e risultano essere individualmente libere ma condizionate dall’ambiente e dalla presenza di altre loro simili, con cui instaurano una relazione libera ma “sociale”, sotto forma di autogestione e cooperazione cellulare, rispondendo in maniera compatibile con le risorse disponibili. Da questa situazione si sviluppano le specializzazioni cellulari e il successivo processo di embriogenesi. La conseguenza è che l’individuo non è il culmine di un processo determinato a priori dai geni, né il fine ultimo per cui vivono le sue cellule, ma è il risultato di un insieme di “scelte” cellulari che rispondono al contesto chimico-fisico in questione e alle leggi della probabilità.

Una visione di questo tipo mette in crisi l’idea deterministica della vita e la superiorità dell’individuo umano adulto rispetto alle altre forme di vita e fasi dell’esistenza. Ciò non può che avere delle conseguenze radicali da un punto di vista politico sull’idea di quale sia il nostro “posto nel mondo” e il nostro rapporto col resto del vivente.

Ne abbiamo parlato con Carlo Milani, traduttore del libro dal francese:

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