LA FINE DELLA FINE DELLA STORIA S.2 #2 – SCIOPERI AMERICANI, BOLLA CINESE

La fine della Fine della Storia

Dallo scorso 15 settembre migliaia di lavoratori statunitensi dell’automobile, inquadrati nel sindacato di categoria UAW (United Auto Workers), stanno portando avanti uno sciopero (che potremmo definire “a singhiozzo”) contro le “Big Three” del comparto: General Motors, Stellantis e Ford. La mobilitazione, che secondo alcuni sondaggi otterrebbe la simpatia di oltre il 70 % degli statunitensi, sembra essere pronta a durare a lungo, portando una sfida notevole alle multinazionali del settore. Le richieste sono di un aumento netto del 40% del salario, lo stesso rapporto, in percentuale, degli aumenti che i boss delle rispettive imprese hanno ottenuto negli ultimi anni grazie ai notevoli incassi del settore. La Ford ha mostrato disponibilità alle trattative mentre Stellantis e General Motors non intendono cedere, adducendo che se venissero incontro alle richieste del sindacato, non potrebbero più reggere la competizione con le case produttrici concorrenti dove non esiste sindacalizzazione come Tesla, Honda e Toyota. La mobilitazione segna per ora un picco rispetto agli ultimi decenni e per la prima volta nella storia lo sciopero riguarda non solo uno, ma ben tre diverse imprese del settore dell’auto. La fiammata si inserisce del resto in un trend più generale di mobilitazioni salariali, col censimento di ben 900 scioperi registrati nell’ultimo anno. In particolare si segnala la lotta degli sceneggiatori di Hollywood e degli attori contro la sempre maggiore ingerenza e utilizzo dell’Intelligenza artificiale nella entertainment industry.

Abbiamo raggiunto Felice Mometti a New York per avere una panoramica di queste mobilitazioni.

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La politica del presidente Biden, già battezzata Bidenomics, fatta di enormi investimenti nazionali, ripristino della produzione manifatturiera interna, acquisizione di miniere di litio e sostegno alla costruzione di fabbriche di microchip, appare in fondo come un tentativo ben militarizzato di superare la Cina.

Dal punto di vista dei decisori politici, l’orientamento anti-Cinese della politica industriale degli Stati Uniti non è l’effetto collaterale e sfortunato della “transizione” verde, ma il suo scopo principale. Per i suoi ideatori, la logica che governa la nuova era di spesa per le infrastrutture è fondamentalmente geopolitica: il suo precedente non è affatto il celebre New Deal ma piuttosto il keynesismo militare della Guerra Fredda.

Descritto dettagliatamente in un rapporto per la Carnegie Foundation, firmato da Sullivan e da altri consiglieri di Biden, è come se la “politica estera per la classe media” avesse fatto crollare le distinzioni fittizie tra sicurezza nazionale e pianificazione economica. Le speranze che un commercio pacifico e globalizzato potesse indurre permanentemente le altre potenze ad accettare l’egemonia degli Stati Uniti sono ben presto andate in pezzi. “Non c’è più una linea di demarcazione netta tra politica estera e politica interna”, ha dichiarato Biden nel suo discorso inaugurale sulla politica estera. “Ogni azione che intraprendiamo all’estero, dobbiamo compierla tenendo a mente le famiglie lavoratrici americane.” La vittoria di Trump, per cui sono state decisive le regioni deindustrializzate del “massacro americano” e della crisi dell’ossicodone aveva scosso l’establishment democratico che iniziava a capire che non necessariamente quanto era buono per Goldman Sachs non lo era per l’America.

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Nella seconda parte di trasmissione spostiamo lo sguardo dall’altro lato del Pacifico, andando ad analizzare la crisi attraversata dal settore immobiliare cinese, balzato ancora una volta alle cronache per il caso dei colossi Evergrande e Country Garden. Si tratta di  una bolla speculativa sedimenta da tempo, fino ad ora in qualche modo congelata dall’azione del governo ma che riemerge in una particolare congiuntura economica segnata dal rallentamento della crescita, dall’aumento della disoccupazione (soprattutto giovanile), dal calo delle esportazioni, dalle crescenti tensioni nello scontro commerciale e tecnologico con gli Stati Uniti. Partendo da un suo recente articolo, andiamo ad inquadrare la vicenda insieme a Piero Favetta.

Ascolta il podcast:

 

MATERIALI

Michael Lind – Trump Can Win the Union Vote in 2024

Grey Anderson – Strategies of Denial

Piero Favetta – Il tracollo di Evergrande e le crescenti difficoltà del capitalismo cinese




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