Macerie su Macerie – 28.12.2020, dalla città all’infrastruttura urbana

Prima dell’anno del Covid uno dei luoghi comuni dei cosiddetti Urban Studies era che la popolazione del pianeta avrebbe vissuto sempre più massicciamente dentro grandi aree urbane o entro vasti territori intensamente urbanizzati, anche se tra loro assai differenti.

Non è certo un’affermazione opinabile, ma presenta altissimi tassi di vaghezza, specialmente per quanto riguarda cosa si intenda per “territorio intensamente urbanizzato”. Per gli europei, e in special modo per gli italiani con l’eredità iconografica dei borghi e della storia comunale, è piuttosto complicato uscire dall’immagine della città forgiata nel medievo: un centro architettonicamente coeso perché vernacolare, da un lato intramezzato dai monumenti simbolo della vita religiosa e dalla piazza civile, dall’altro attraversato dalle venature dei vicoli e delle strade, costruiti, ancor prima che come attraversamento, come luogo reale quanto crudo del comun vivere. Se non sembra da tempo una descrizione calzante è perché non se ne vede il trasferimento nella città industriale e novecentesca in un diverso tipo di scala, quella del quartiere, nelle sue varie accezioni negative e positive, inserito nel fallito progetto moderno del funzionalismo urbano.

Appare piuttosto evidente che ciò che si intende ora con spazio urbanizzato ha poco, talvolta nulla, a che vedere con quanto sopra e s’impone così la necessità di porre “una nuova questione urbana”, non soltanto in termini analitici e di comprensione di cosa comunemente chiamiamo città, ma soprattutto per riuscire a elaborare un discorso critico in grado di carpire la portata di violenza delle nuove interazione economiche e sociali che si formano in questo quanto mai sfuggente terreno. 

L’uso di “sfuggente” non è casuale. Da anni non si fa che parlare di città, del suo ruolo rinnovato di attore primario all’interno del cambiamento di paradigma dell’economia e della società, a cui si associa di continuo come un mantra il prefisso post (postfordista, postindustriale, postkeynesiana, postmoderna e ora postpandemica). Eppure più i discorsi sulla città si moltiplicano esponenzialmente riempiendo di questo oggetto conturbante cartelloni pubblicitari, progetti sociali welfaristici, start-up su come meglio far fluire i network metropolitani, e meno si riesce a delimitare che cosa sia l’urbano, come si stia modificando, come sia governato localmente e con quali finalità di valorizzazione del capitale si poggia su di esso il sistema di governance globale. Insomma, se sia possibile o no tracciarne una forma o se per capire meglio l’oggetto in questione non si debba uscire dalla dicotomia dentro/fuori per addentrarsi nell’idea che ci sia una riconfigurazione spaziale del capitalismo, una sua urbanizzazione – certo – ma che questa non sia semplicemente una sostituzione o un superamento della città così come si è data fino agli anni settanta del ‘900.

La pandemia di Covid-19 che ha investito in pieno l’ultimo anno ha messo in luce alcuni aspetti che sono fondamentali per capire come la riconfigurazione spaziale del capitalismo non si basa sulla città ma sulle infrastrutture urbanizzate più o meno sofisticatamente. Come spiegare altrimenti l’ascesa o il declino di un determinato sistema urbano, il successo di una certa Milano e il tracollo provincialista del capoluogo sabaudo? Come chiamare la possibilità di attraversamento che le classi agiate hanno nello scappare dalla città – termine usato ora nella sua accezione amministrativa di comune – per rifugiarsi nella seconda casa a Bardonecchia? Qualche spiegazione poco originale venuta fuori negli ultimi mesi riguardo alla fuga delle élite verso borghi alpini o case al mare offre una spiegazione poco strutturale e troppo volontaristica, sul solco del “ci hanno fregato, ora chi ha la possibilità scappa dalle città contagiate e nel futuro prossimo troppo calde per essere abitate con continuità”. Non si può dire sia falso, ma non coglie la reale portata, attuale e a venire, di quegli spostamenti privilegiati: la “città” vissuta dalle classi agiate attraverso la mobilità fisica accelerata, i canali telematico-virtuali e l’omogeneo sistema dei pagamenti globale è esso stesso lo spazio infrastrutturale urbanizzato, quel vago oggetto che si diceva all’inizio e che ancora qui, nei bassi o medi fondi della società, confondiamo in base alla nostra parziale esperienza con la città.

Per riprendere due fortunate metafore che vengono dall’analisi della gestione dell’occupazione israeliana, quelle di arcipelaghi e enclave di Petti, dobbiamo aspettarci per i prossimi anni che le città che non saranno riuscite politicamente ad agguantarsi sufficienti investimenti verranno escluse da questo network infrastrutturale urbanizzato, mentre luoghi da prima considerati naturali e remoti ne saranno presto raggiunti in una divisione tra urbano e non urbano che lì avrà terminato il suo senso ultimo.

A Macerie su Macerie, qualche lettura e frammentaria analisi sul tema:

 




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