Turchia. Una testimonianza dalle barricate di Taksim

Scritto dasu 19 Giugno 2013

169783584-594x350In queste settimane l’informazione di Blackout ha cercato di fare la cronaca della rivolta che ha scosso la Turchia, cercando nel contempo di coglierne le radici.
In una lunga intervista, Cenk, un compagno di Istanbul, che ha preso parte alla lotta in piazza Taksim, ci racconta della piazza e di chi l’anima. Ne è uscito uno spaccato di un paese dai tanti volti, spesso diversi, che hanno costruito il mosaico di una resistenza che continua nonostante la durissima repressione. Anzi. Per molti piazza Taksim e il parco Gezi sono stati la prova della democrazia reale e la consapevolezza che l’azione collettiva e l’insurrezione possono far traballare qualsiasi governo.

Con lui abbiamo provato ad attingere alle radici profonde della rivolta.
Il movimento in difesa di Gezi Park non mirava alla semplice salvaguardia del verde pubblico, ma si opponeva al processo di gentrificazione urbana in atto nella zona di Taksim. La gentrificazione è la trasformazione di aree urbane povere in aree ricche. I più poveri vengono espulsi dai quartieri dove ruspe e speculazione edilizia, rendono impossibile continuare a vivere. Nelle aree centrali di Istanbul il processo è in corso da anni. Intere zone vengono distrutte per lasciare spazio a complessi residenziali, grandi centri commerciali, alberghi di lusso, il costo della vita aumenta, aumenta la schiera degli emarginati, aumentano i profitti degli speculatori legati al partito di governo, l’AKP. Il centro commerciale, la moschea e il rifacimento delle caserme ottomane che dovrebbe sorgere a Gezi Park sintetizzano i cardini ideologici della politica di Erdogan: capitalismo sfrenato, conservatorismo religioso, nazionalismo in salsa neo-ottomana.
Riportare la Turchia ai fasti imperiali del periodo ottomano è uno dei ritornelli della retorica del governo turco. Per questo sono pronti già altri favolosi progetti: l’aeroporto più grande del mondo, la moschea con i minareti più alti del mondo, ed un nuovo canale parallelo al Bosforo.
Contro questi progetti di vera e propria devastazione sociale ed ambientale si sono sviluppati movimenti popolari. In particolare nella regione del Mar Nero si sono tenute negli ultimi anni numerose manifestazioni contro discariche, centrali nucleari, fabbriche inquinanti, autostrade e dighe.
Un altro elemento determinante nell’esplosione delle rivolte è costituito dalle politiche islamiste conservatrici imposte dal governo.
Quelle che giornali come “Repubblica” hanno liquidato come “proteste della birra” o, più romanticamente, “dei baci”, sono in realtà una reazione della società turca all’attacco alle libertà personali. Non si tratta di difendere uno stile di vita occidentale o di rivendicare il laicismo militare di Ataturk. Chi scende in piazza ha capito che il governo vuole completare il proprio sistema di dominio legalizzando ed istituzionalizzando una repressione religiosa che punta ad eliminare ogni libertà individuale.
Le prove generali della repressione Erdogan le aveva fatte quasi un mese prima, durante le manifestazioni del Primo Maggio ad Istanbul, vietate dalle autorità. Lo Stato turco usa il pugno di ferro contro le normali manifestazioni di piazza, una linea comune che unisce i governi repubblicani laici, le dittature militari e il governo islamico dell’AKP. Una politica fortemente autoritaria e repressiva che negli ultimi mesi in Turchia si era inasprita ulteriormente per poter applicare senza problemi le misure decise dal governo.

Ascolta l’intervista a Cenk

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