L’irrappresentabilità cinematografica del capitalismo
Scritto dainfosu 4 Febbraio 2014
“Perché il capitalismo resiste al fatto di essere messo in immagine? Innanzitutto perché non è un singolo avvenimento, ma una logica invisibile (anche se intellegibile) che mette insieme eventi diversi che pur essendo lontanissimi, e molto spesso ignari gli uni degli altri, sono legati tra loro. Che cosa hanno in comune la City londinese, con le fabbriche del sud-est asiatico, le miniere di rame del Cile, i circuiti internazionali della logistica, l’agricoltura della California etc.? Nulla apparentemente.
O meglio, nulla a livello del loro immaginario. Ma dal punto di vista delle relazioni economiche capitalistiche, i loro destini vivono in una fortissima dipendenza reciproca. Chi infatti al cinema ha tentato di porre il problema della rappresentazione del capitalismo – come Sergej Ėjzenštejn, Alexander Kluge o Jia Zhang-ke – non l’ha fatto tramite la messa in scena di una narrazione, ma tramite l’incontro/scontro di immagini lontane tra loro. Se invece si tenta di ridurre il capitalismo a un’immagine o a una storia esemplare non si può che feticizzarlo: ovvero non si può che mistificare una mediazione complessa di relazioni sociali in una storia. Del capitalismo insomma non c’è immagine. O meglio, qualunque immagine è parte di esso (dato che non esiste immagine che non sia del capitalismo). Il problema è la loro relazione. Il problema è il loro montaggio come aveva capito Ėjzenštejn.
Sta qui la differenza tra Wall Street – Il denaro non dorme mai di Oliver Stone, dove il mondo finanziario di Wall Street è preso come emblema delle storture del capitalismo contemporaneo, e ne diviene un simbolo, e il nuovo bellissimo film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street. Scorsese non ha realizzato un film sul mondo della finanza, ha voluto semmai estrarre dal mondo finanziario un unico particolare, che tuttavia è fondamentale: quello del suo effetto anestetico rispetto ai rapporti sociali che stanno attorno, come se fosse un modo per renderli opachi e invisibili. C’è una differenza, sottile e tuttavia sostanziale, tra fare della finanza un simbolo del mondo circostante e ridurla a un principio di cancellazione della realtà, ad un’esperienza di intontimento, come quella di chi prende un Quaalude, la droga onnipresente del film. La finanza è in The Wolf of Wall Street un’esperienza di accecamento. È un registro dell’esperienza che permette di non vedere nient’altro che se stessi e il proprio capriccio tenendo il mondo reale con i suoi conflitti a distanza. Senza mai porsi alcuna domanda. Senza mai chiedersi perché”.
Quanto sopra è un estratto della bella recensione al novo film di Scorsese, nelle sale in questi giorni, di Pietro Bianchi, un giovane critico cinematografico che ci è venuta subito voglia di raggiungere telefonicamente. Il film vale le tre ore che dura. Un montaggio potente di immagini che ci svelano, eccesso dopo eccesso, la natura intrinsecamente violenta, oscena e distruttiva del capitalismo.