A cinquant’anni da Selma
Scritto dainfosu 9 Marzo 2015
Sono passati cinquant’anni dalle tre marce che da Selma volevano arrivare a Montgomery. Oggi Selma è un paese che ha un tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media nazionale e il reddito dei neri dal 2000 oggi è sprofondato. Per quanto la segregazione di fatto diminuisca in virtù dell’impoverimento dei bianchi e dell’aumento esponenziale della componente dei latinos (ma anche degli asiatici) non diminuiscono parimenti le tensioni sociali.
Un primo angolo prospettico da cui lanciare il nostro sguardo potrebbe essere rivolto alla narrazione di quegli anni che mi pare abbia trionfato largamente nel mainstream. Le fortissime tensioni sociali e le lotte di quegli anni sono state rimosse per essere condensate e rappresentate nei giorni scorsi semplicemente come una serie di marce pacifiche attaccate con ottusità dalla polizia e dai poteri locali in particolare. La questione in realtà e ben più complessa e se è vero che il carattere delle proteste che attraversano tutti gli anni cinquanta e sessanta è tendenzialmente tranquillo al sud è pur vero che quel ’65 è l’anno della rivolta di Watts, Los Angeles. Dall’11 al 17 agosto ci furono 34 morti, più di mille feriti, più di tremila arresti, e 40 milioni di dollari di danni. Inoltre quell’anno precede di un solo anno la nascita del Black Panther Party e anticipa le rivolte che si sposteranno poi a Nord: Detroit e Newark in particolare.
Venendo ad oggi appare indiscutibile che ci troviamo di fronte a una questione di classe ma è altrettanto vero che questa questione conserva dei tratti marcatamente razziali. Non si centra il problema se non guardando ai due aspetti.
E’ uscito proprio la settimana scorsa il rapporto del Dipartimento della Difesa sull’operato della polizia di Ferguson, città a maggioranza nera dai poliziotti bianchissimi. Appare confermato una sorta di prelievo fiscale indiretta sulla popolazione nera esercitata attraverso le forze di polizia: multe, sanzioni amministrative in genere, e pene pecuniarie costituiscano la seconda voce per importanza nel bilancio cittadino. Se il fenomeno non è generalizzabile è però operante nelle città statunitensi una sorta di diritto rovesciato, una forma di “presunzione di colpevolezza” applicata in particolare ai giovani afroamericani.
Eppure un’esperienza di lotta che voglia radicarsi oggi nei quartieri periferici delle metropoli statunitensi difficilmente potrebbe darsi su una base etnica escludente. I latinos e gli asiatici, con le loro peculiarità e diversificazioni interne sono un fenomeno demograficamente esplosivo… Insomma sembra che la questione afroamericana in quanto tale non sfugga al disorientamento generale dei movimenti sociali a livello globale. Le proteste stesse del dopo-Ferguson sembrerebbero più il prodotto dell’ostentazione violenta di impunità della polizia di Ferguson che non la deflagrazione di un sentimento forte e condiviso alla ricerca di un’organizzazione. D’altronde ci chiediamo sul piano dei diritti civili, che cosa dovrebbero chiedere i neri in quanto tali, dopo che Lindon Jhonson gli ha garantito la pienezza dei diritti legali.
Ne parliamo con il professor Bruno Cartosio, docente di storia dell’America del Nord all’università di Bergamo.