Guerre, profughi e disciplinamento

Scritto dasu 9 Marzo 2016

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Negli scorsi giorni si è tenuto l’ennesimo vertice tra UE e Turchia per definire quale sarà effettivamente il ruolo di “contenimento” dei Turchi delle ondate migratorie che assediano la fortezza Europa. Per il momento è un nulla di fatto, nel senso che i governanti europei hanno preferito riagggiornarsi al 17 marzo. Esiste però qualcosa di simile a un preaccordo, se è vero che l’ONU è già preoccupato dalla possibilità di rimpatri di massa forzati. Non è ancora chiara quale sarà l’entità della contropartita in denaro: 3 miliardi, 6?  I profughi di ogni natura, è chiaro ormai a tutti, sono una pedina di grande peso nel quadro geopolitico mondiale. Un gioco che già aveva giocato Gheddafi, almeno sino a che non è caduto in disgrazia presso le potenze che lo avevano corteggiato, ma che nel caso della Turchia, che gioca quasi in proprio nel caos sistemico mediorientale, ha un peso ben più consistente.

Il vertice ha mostrato ancora una volta un’Europa fragile, che cede sulle sue fondamenta, e, di più, ci mostra come la mancanza di leadership (contrapposta al management per usare le parole di Baumann) sia un problema epocale. Non si può dire infatti che la Merkel non abbia provato a essere leader ma si è trovata assediata da diversi ordini di problemi. Prima di tutto un problema di consenso interno che gli ha creato, di conseguenza, grosse difficoltà anche all’interno del suo stesso partito; un problema grosso come una casa a Est, dove dalla mezzanotte le frontiere della Slovenia sono praticamente chiuse (seguirà l’esempio la Serbia) di fatto chiudendo, o rendendo sempre più aspra,  e più appetibile per i tanto vituperati “trafficanti di uomini”, la rotta balcanica. Un problema in Austria che non vuole certo essere la sala d’aspetto dei profughi in transito verso il Nord, un problema a Sud dove l’Italia non ha certo un governo capace di forzare l’opinione pubblica sulla questione migranti e ha perso il sostegno dell’alleato storico Gheddafi nel contenimento dei migranti e che in uno scaricabarile infinito viene messa in difficoltà dalle posizioni di chiusura ad Est.

In questo caos gioca un ruolo fondamentale la questione del consenso di una opinione pubblica terrorizzata ad arte e impoverita che tende a manifestare le proprie paure, elettoralmente parlando, fascinosi incantare da sirene isolazioniste e protezioniste che in parte fanno presa e i parte sono semplicemente i cantori di profezie che si autoavverano grazie alla complicità squallida di un’informazione preoccupata perlopiù di vendere un prodotto.

Nel mentre dal dibattito pubblico sono completamente assenti almeno due ordini di ragionamento. Il primo è il caro vecchio cui prodest. A chi giovano muri e barriere? Gli emigranti non sono innanzitutto forza lavoro a basso costo da disciplinare? Il problema è come fermarli o piuttosto come farli essere più utili, disponibli, docili? Il secondo è sulle cause strutturali di queste emigrazioni di massa: l’intervento capitalista nei Paesi di origine degli emigranti attraverso le guerre o attraverso l’intervento economico o spesso attraverso entrambi. Discorso quanto mai urgente dal momento che l’Italia si prepara a una nuova guerra.

Di questo e altro abbiamo provato a ragionare con il professore, e compagno, Pietro Basso, che all’Università Ca’ Foscari di Venezia sta dirigendo un master sull’immigrazione

Pietro_BAsso_Emigranti_marzo2016


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