Dinastia Ortega in Nicaragua

Scritto dasu 12 Novembre 2016

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Dopo l’ufficialità dei risultati, migliaia di sostenitori di Ortega (eletto al quarto mandato) e del suo partito, il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, sono scesi a festeggiare per le strade della capitale Managua. “Sono euforico, ringraziando Dio per questa opportunità, questo trionfo, così la gente continuerà a raccogliere i benefici”, ha dichiarato un manifestante sventolando le bandiere rosse e nere del partito sandinista.

Forse in questa immagine che correda l’articolo sta tutto il significato dell’elezione 2016 alla presidenza del Nicaragua, con le contraddizioni e la retorica di rito, il voto popolare, ancora strenuamente legato al sandinismo della prima ora (perché in fondo e pragmaticamente è l’opzione migliore che le genti del mesoamerica possono sperare: educazione, terre, medici), e all’opposto l’astensione (record: 70 per cento) di chi si è sentito tradito volta per volta dalle innumerevoli giravolte di Daniel Ortega, compresi i compagni che avevano lottato contro Somoza e qualche anno dopo furono cacciati dal movimento: questi due ritratti del leader sandinista e del navigato politico marcano la distanza tra quella insurrezione dei tardi anni Settanta e questa perpetuazione di potere dinastico, che per certi versi difende ancora in parte la condizione del popolo nicaraguense e dall’altro risulta autoritario e paternalista, compromissorio con apparati ecclesiastici, élites finanziarie e potenze interessate a avamposti in terra americana.

Carlos Chamorro stigmatizzò il sistema di Ortega nel 2011 in questo modo: «Il modello di Ortega, battezzato come socialista, cristiano e solidale, è autoritario a livello politico, business oriented in economia e populista nel sociale. Usa una retorica rivoluzionaria e religiosa e, a differenza di Chavez, assicura la continuità del neoliberismo e delle alleanze con il gran capitale». Peraltro il trionfo del sandinismo certifica l’enorme popolarità del progetto di riforme socialiste portate avanti da Ortega, e la sconfitta del pressing nordamericano durante tutta la campagna elettorale. Soddisfazione anche dal Venezuela di Maduro che potrà ancora contare su un prezioso alleato in una Regione in bilico su cui soffia minaccioso il vento della restaurazione neoliberista.

 

Ma non è tutto lì, in quei 36 anni che dividono un’immagine dall’altra si riconosce il passaggio della storia e lo sviluppo del paese, perché nel calderone della rielezione di Daniel Ortega si trovano le alleanze con il Venezuela di Chavez, sfruttato per il petrolio; con Cuba, un punto di riferimento nell’area; con la Cina, dotata di finanziamenti e progetti, uno dei quali riguarda quel canale – tanto vituperato da ambientalisti e sinistre planetarie – parallelo a quello di Panama che farebbe concorrenza a tutti per porre in comunicazione celermente l’Oceano Pacifico all’Atlantico… si capisce perché Reagan si inventò i Contras per disinnescare questa forza alternativa nel cortile di casa… forse ora risulta un po’ spuntato, ma rimane ancora un esercizio alternativo al colonialismo statunitense. Forse… per dipanare i dilemmi che si addensano su questa scelta elettorale bisognerebbe sentire il parere di chi ci vive e magari quarant’anni fa, abbracciando la lotta contro il dittatore fantoccio della Cia, pensava a qualcosa di diverso; per ora ci siamo rivolti a uno dei pochi che ha ripreso e analizzato la notizia nel sito “Il faro sul mondo”, Giovanni Sorbello:

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