Roma, 25 novembre. Un saluto alle prigioniere del CPR
Scritto dainfosu 21 Novembre 2017
Sabato 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza di genere, prima del corteo indetto a Roma dall’assemblea della rete “Non una di meno”, che partirà da piazza della repubblica alle ore 15, l’assemblea contro i CIE ha lanciato un appuntamento al CPR di Ponte Galeria. Alle 10 alla stazione Ostiense per andare insieme al CIE, oppure direttamente lì – fermata metro “fiera di Roma”.
Ne abbiamo parlato con un’esponente della Rete No Cie di Roma.
Ascolta la diretta:
Di seguito qualche stralcio dal documento di indizione dell’iniziativa
“La violenza dei confini è violenza sulle donne. Vogliamo tutte libere di autodeterminarsi!
Da molti anni la propaganda mediatica dei governi dei paesi occidentali proclama che “le nostre donne” sono libere perché hanno gli stessi diritti degli uomini.
Tale rivendicazione viene portata avanti in contrapposizione alla presunta condizione delle donne nei paesi colonizzati, che vivono, nell’immaginario occidentale, una situazione di passività e sottomissione.
Si riafferma ancora una volta il discorso razzista che assegna a noi brave europee il compito di salvare queste “vittime” dalla barbarie, specialmente se donne, ancor più migranti e/o sex workers.
Di fatto, a braccetto con questa vocazione salvifica della narrazione imperialista, ci passeggia un sistema eteropatriarcale che dalla vittimizzazione della donna accresce il proprio potere e le proprie forme di dominio e controllo sui corpi, dipingendoli come non in grado di autodeterminarsi e incapaci di assumere il controllo della propria esistenza, e pertanto giustificandone la privazione di libertà in nome della “loro” sicurezza. (…)
La riduzione delle donne a vittime, deboli, incoscienti e irrazionali è uno dei presupposti che legittima il patriarcato e funge da spiegazione oggettiva alla sua esistenza. Fondamenta la teoria che le donne siano biologicamente inferiori e dunque le rende soggetti facilmente controllabili e strumentabilizzabili.
(…) i corpi delle donne rappresentano un territorio da salvaguardare dalle invasioni barbariche. Dove i barbari sono, come sempre, tutti quelli che vivono fuori dai confini dell’impero. (…)
Personalizzare le esperienze di violenza è una strategia che divide le donne e fa percepire loro le esperienze come atipiche e slegate da quelle delle loro simili. Quindi mina una visione complessiva del fenomeno e di conseguenza una possibile soluzione.
Storie di donne recuperate in mare, donne liberate dalla schiavitù della tratta, storielle commoventi d’integrazione, donne dipinte come povere vittime da compatire, da salvare da questa vita crudele da cui sono scappate, e da accogliere. Così le descrivono i media al soldo delle istituzioni e del potere. Lo stesso potere che ipocritamente piange le 26 ragazze nigeriane arrivate morte a Salerno su un barcone, e che dichiara di voler fare giustizia definendo il fatto come “una tragedia dell’umanità”.
Esiste però un’enorme contraddizione in queste parole (…). Questa contraddizione rivela due realtà che sembrano opposte, ma che in fondo sono simmetriche e rappresentano le due facce di una stessa medaglia.
Queste donne, infatti, una volta arrivate in Italia vengono istantaneamente oppresse da un meccanismo perverso che le categorizza, le classifica e le rende più facilmente controllabili. Chi decide in quale categoria inserirle e muoverle come pedine da una all’altra è sempre lo stesso potere centrale che le compatisce e le vuole salvare.
Qualcuna viene inclusa in quella che viene chiamata “accoglienza”: un sistema infantilizzante che le rende dipendenti da tutto e per tutto. Le donne che entrano in questo circuito e in questo limbo in attesa di un asilo politico o una sorta di protezione legale, nel “migliore” dei casi sono sottoposte a rigide regole che limitano la loro libertà e la loro iniziativa personale.
Se si decide di infrangere queste regole o se chi comanda il “gioco” decide di cambiarle, allora si passa dalla categoria “inclusa” o “includibile” a quella di indesiderabile, ed ecco che la medaglia si gira ed appaiono i Centri per il Rimpatrio, e chi diceva di voler salvare quelle donne ne diventa l’aguzzino.
Lì dentro sovraffollamento, cibo avariato, assenza di cure mediche, tranquillanti, pestaggi.
Le donne che finiscono nel Cpr spesso provengono dalle questure, alle quali si rivolgono per sporgere denuncia per liberarsi dalla violenza dei loro partner, o semplicemente per rinnovare i documenti.
Non deleghiamo allo stato la soluzione a un problema di cui è artefice
Contrastiamo la logica dell’accoglienza e dei centri di detenzione, non rendiamoci complici della violenza e del razzismo di stato.
Solidarizziamo con chi sabota e lotta contro le frontiere e le galere.”