Brexit. Sulla pelle dei lavoratori

Scritto dasu 4 Febbraio 2020

Dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020 il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda non fa più parte dell’Unione Europea.

Boris Johnson, primo ministro del Regno ha dichiarato in pompa magna che si apre una nuova era e che lo UK avrà davanti a sè un’era d’oro del libero scambio.

La partita è in realtà ancora aperta. Vi è ancora un anno di tempo per trovare un accordo commerciale con l’Unione Europea e per il futuro economico del Regno sarà determinante trovare un accordo che permetta di salvaguardare Londra come uno dei maggiori centri finanziari globali. Già dal referendum che ha sancito l’inizio della Brexit Londra è passata dall’essere la prima piazza finanziaria al mondo a essere la seconda, passando lo scettro a Wall Street. Se la City dovesse ancora perdere posizioni, ad esempio a favore di Francoforte, quel 4% di PIL generato dai mercati finanziari, a cui va aggiunto il PIL “indiretto” (consumi di lusso e mercato immobiliare di lusso) andrebbe a sfumare, con conseguenze pesantissime per un paese che ha già un bilancia commerciale in forte deficit, mancando di una forte industria manifatturiera.

Chi potrà realmente determinare il futuro saranno quindi le grandi compagnie finanziarie che potranno decidere di appoggiare la Brexit, tenendo le loro sedi a Londra, oppure di abbandonare la nave facendola affondare.

Ma quali saranno le conseguenze di questa svolta per i lavoratori, sia quelli con cittadinanza del Regno Unito che quelli europei che lavorano in UK, al di là della propaganda antieuropeista o europeista?

Lo UK ha due principali flussi migratori: uno proveniente dai paesi comunitari e un altro proveniente dai paesi del Commonwealth. Boris Johnson è rappresentante di un partito che porta avanti politiche xenofobe ma ha bisogno di lavoratori stranieri per mantenere certi settori, come i servizi, anche in settori fondamentali come quello sanitario. Una delle soluzioni che si prospetta è quello di accettare solamente lavoratori qualificati ma imponendo un tetto massimo ai loro stipendi. Questo creerebbe una forte concorrenza sul mercato del lavoro stesso, favorendo l’assunzione di lavoratori immigrati meno costosi e lasciando disoccupati, sempre che non accettino peggiori condizioni di lavoro, i lavoratori “autoctoni”. Una pratica di compressione dei salari a puro vantaggio dei padroni, agita sulla pelle dei lavoratori, a prescindere dalla nazionalità di questi.

Ascolta la diretta con Francesco Fricche, economista

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