La bancarotta dei cedri: chi si comprerà il Libano all’asta dei bond?

Scritto dasu 14 Marzo 2020

 

Lunedì 9 marzo il Libano non ha potuto restituire 1,2 miliardi di eurobond in scadenza, con un debito pubblico al 170 per cento e rivolte popolari solo sospese per covid19 – alla ricerca di un modo di esprimersi alternativo tutti insieme. Ha praticamente dichiarato la bancarotta. Hassan Diab, nuovo leader libanese, chiamato a trovare una soluzione alla insolvenza bancaria, non ce l’ha fatta: è rimasto sotterrato dal debito. Le banche libanesi si sono dissanguate per mantenere la parità con il dollaro e a sovvenzionare la corruzione e la finanziarizzazione di un’economia fino a 10 anni fa solidissima e pronta a lucrare sulla crisi del 2008, ma gradualmente il risparmio fu eroso dal debito e nel 2019 cominciarono le restrizioni sui prelievi, perché le banche non riuscivano più a reggere e avevano attinto pericolosamente alle riserve di valuta preziosa, dando così spazio alla finanza di imporre bond in cambio di prestiti, mentre il paese non riusciva a importare prodotti da pagare in valuta. Poiché la crisi libanese ha seguito la flessione del mercato petrolifero. Quando nel 2018 il prezzo del petrolio ha iniziato a calare e l’Arabia Saudita ha ritirato il suo sostegno alle istituzioni libanesi, queste hanno dovuto umentare le tasse. L’economia libanese è caratterizzata da un doppio legame tra il settore bancario – diviso tra istituti vicini ai vari potentati politici – e i settori dell’immobiliare e dei servizi, anch’essi strettamente legati ai partiti tradizionali. Di qui discende quella crescita di una struttura economica sempre più sbilanciata verso settori non-produttivi, compensata fino a pochi anni fa dagli ingenti investimenti stranieri resi attraenti dagli alti tassi di interesse garantiti dalle banche libanesi e dal tasso di cambio della valuta nazionale rispetto al dollaro. Dall’altra parte, in mancanza di un settore industriale sviluppato, il sistema politico ha garantito l’occupazione tramite la creazione e distribuzione di posti di lavoro su base settaria, che via via hanno gravato sul bilancio dello stato

Ora il buco è contabilizzato in 30 miliardi di dollari e due terzi dei bond sono in mano a speculatori perlopiù britannici, l’alternativa a essere mangiato dai detentori dei titoli in eurobond (la banca inglese Ashmore) per il Libano è la richiesta di aiuto al Fmi (già intervenuto alla fine della Guerra civile, come si vince dall’intervento di Rosita Di Peri), con quello che consegue normalmente in termini di cancellazione di diritti, welfare, produttività e imposizione di austerità, licenziamenti, ulteriori privatizzazioni, che nel paese dei cedri è alla base della dissoluzione del sistema, poiché la spartizione tra i potentati delle varie comunità, i cui vari apparati si sono spartiti la ricchezza, affidando servizi malerogti a privati. Il problema è che Hezbollah non vuole assolutamente affidarsi al Fmi per il controllo americano sulla istituzione monetaria; ma la fine del sistema di equilibri tra comunità, a cui ha contribuito non poco a dare una spallata il movimento ancora molto vivace, che è attraversato da componenti di ognuna delle 18 comunità e protesta anche e soprattutto contro i trent’anni di neoliberismo in cui lo stato si è ritirato dall’erogazione di servizi primari, dapprima collegato alla ricostruzione del dopoguerra. Questo ingranaggio, di cui le grandi famiglie (una per tutte gli Hariri sostenuti dai sauditi) sono l’emblema patente, ha permesso al paese di lasciarsi alle spalle la guerra civile che ha dissanguato il paese dal 1975 al 1990, ma ha anche arricchito le clientele a discapito delle casse statali e della popolazione e le rivendicazioni dei giovani protestano contro questo sistema di ripartizione, senza leader con rivendicazioni precise e condivise.

La permeabilità dei confini libanesi, la quantità di rifugiati, possono aver prodotto situazioni di crisi già con la presenza della diaspora palestinese, ma l’accoglienza libanese ha sempre assorbito l’immigrazione (impegnati nelle ditte di costruzioni) per cui si possono archiviare gli effetti della vicina crisi siriana come diversamente influenti sui problemi di Beirut.

Dalla bancarotta e dall’affastellarsi di questi e di molti altri aspetti della storia socio-politica libanese siamo partiti per capire con Rosita Di Peri in che modo si sia potuto arrivare a questo punto e verso dove si possa indirizzare, ora che non è più così scontato che il Libano venga aiutato comunque, soprattutto perché gli interessi della finanza e le sue strategie sono mutate, come il gioco di alleanze e il rischio di sopravvivenza per gruppi di potere, come i filoiraniani di hezbollah.

La bancarotta libanese era nella natura del sistema?

 

Un sistema fortemente maschilista, come abbiamo potuto rilevare quando Rosita ci ha illustrato la condizione femminile a partire dal sistema kafala per immigrate e collaboratrici famigliari in condizioni di schiavitù e dalla mancanza di un codice civile unificato, di diritti, e dalla presenza lgbtqia all’interno del movimento. Intrecciato al consociativismo tra comunità religiose il patriarcato è ancora molto potente e pervasivo, eppure in questo frangente – o forse proprio per quello – le donne sono state molto presenti in piazza durante la sollevazione di questi mesi; e non è certo l’inserimento di parecchie donne nel nuovo governo di Diab a essere sufficiente per contenere le rivendicazioni egualitarie.

La contingenza di crisi aiuta l’emergere delal rivolta femminile contro il patriarcato

 


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