CIE. Una polpetta avvelenata

22 dicembre. Un deputato del PD, Khalid Chaouki, dopo una visita al Centro di prima accoglienza di Lampedusa, ha deciso di non andarsene, facendosi rinchiudere con i profughi dimenticati lì da mesi. Tra loro i superstiti del naufragio del 2 ottobre, che suscitò commozione ed indignazione anche istituzionale, ma, al di là della pubblica esibizione di cordoglio, delle promesse di superamento della Bossi-Fini, nulla è cambiato. Chaouki ha dichiarato che non se ne sarebbe andato finché i reclusi non fossero stati trasferiti in un CARA.

21 dicembre. Quattro immigrati si sono cuciti le bocche per protestare contro il prolungarsi della detenzione nel CIE di Ponte Galeria a Roma. Immediatamente il quotidiano “La Stampa” ha pubblicato la notizia con il massimo del rilievo e il titolo “protesta choc”. Chi segue da anni le lotte degli immigrati nei CIE della penisola non può che constatare amaramente che si tratta di uno “choc” a scoppio ritardato, uno “choc” mediatico, studiato a tavolino per aprire la strada a qualche provvedimento sui CIE. Sono anni che gli immigrati si cuciono la bocca per protesta, sono anni che dai CIE filtrano le immagini che riprendono le bocche serrate da fili robusti, ferite dall’ago, simbolo di una resistenza che cerca di spezzare il silenzio. Inutilmente. A Torino nel lontano 2009 alcuni compagni fecero iniziative perché si parlasse di quelle bocche cucite, di quelle bocche serrate perché anche le urla si schiantano sul muro dell’indifferenza. I media parlarono del dito e nascosero la luna.

Oggi tutto sembra cambiato.
L’atteggiamento nei confronti dell’immigrazione clandestina si sta modificando. Sospettiamo tuttavia che probabilmente tutto debba cambiare, perché tutto resti come prima.

Anarres ne ha discusso con Federico, un compagno impegnato da anni nella lotta contro i CIE.
Ascolta la chiacchierata:

2013 12 20 denitto cie

Proviamo insieme a fare il punto.
Le galere per immigrati senza carte nell’ultimo anno si sono dimezzate. Ne rimangono aperte solo sei (Torino, Milano, Roma, Trapani Milo, Pian Del Lago, Bari), le altre sono state, una dopo l’altra, bruciate e fatte a pezzi dei reclusi. Il governo ha dovuto chiudere i CIE di Gradisca, Trapani Vulpitta, Bologna, Modena, Crotone. Ufficialmente sono tutti in attesa di ristrutturazione, ma non c’é nessuna notizia certa su una possibile riapertura.
Tutti i CIE ancora aperti sono stati a loro volta gravemente danneggiati dalle continue rivolte, la conclusione è una sola: la macchina delle espulsioni è ormai al collasso.
In base ai dati, ormai calcolati per difetto, dello stesso Viminale, degli oltre 1800 posti dei CIE ne sarebbero ancora agibili meno della metà ed effettivamente riempiti nemmeno un terzo.
Il governo tace, gli specialisti della guerra contro i poveri sono alle prese con la rovina dei loro leader, i poliziotti premono perché non ne vogliono più sapere di fare i secondini nei CIE, dove si rischia di incappare nella rabbia di chi si vede sfilare la vita giorno dopo giorno. Il CIE è un limbo, che precede la deportazione, una sala d’aspetto con sbarre e filo spinato in attesa di un treno che nessuno vuole prendere. 

Si dice che a gennaio possa riaprire il Centro di Bologna e successivamente la struttura modenese ma ancora non si sa chi verrà chiamato a gestirli dopo il disastro della cooperativa Oasi, che si era aggiudicata l’affare vincendo la gara d’appalto con un ribasso enorme rispetto alla precedente gestione della Misericordia di Giovanardi.
A Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e Palazzo San Gervasio (Potenza) potrebbero sorgere due nuovi CIE, dopo l’avventura presto finita dell’emergenza Nordafrica.
Il governo ha stanziato 13 milioni di euro ma non si sa se i lavori abbiano preso l’avvio e che punto siano.

Numerosi segnali indicano che la ricetta individuata dal governo potrebbe essere decisamente più complessa del “semplice” riattamento dei CIE distrutti e dell’eventuale apertura di nuove strutture.

La decisione di spedire gli immigrati reclusi nelle patrie galere a scontare gli ultimi due anni nei paesi d’origine assunta con il decreto svuotacarceri prenderebbe due piccioni con la solita fava. Alleggerire il sovraffollamento carcerario e, nel contempo, evitare il trasferimento nei CIE e la trafila del riconoscimento espulsione dell’immigrato. Difficile dire se funzionerà, perché molto dipende dalla disponibilità dei paesi di emigrazione ad accettare questo pacco/dono dall’Italia.

A fine novembre il governo Letta ha stipulato un nuovo accordo con la Libia per il controllo congiunto delle frontiere: droni italiani nel sud della Libia, militari libici e bordo delle unità della marina militare impegnate nell’operazione Mare Nostrum.

Al ministero stanno studiando la possibilità di introdurre dei secondini privati per le funzioni di sorveglianza a diretto contatto con i reclusi.
Qualche solerte e sinistro esperto del business dell’umanitario, come il consorzio Connecting People, propone di trasformare i CIE in campi di lavoro.

Il quadro che ne emerge ci pare chiaro. Outsourcing della repressione alla frontiera sud, riduzione degli internati con il trasferimento anticipato dei carcerati nei paesi d’origine, accoglimento delle proteste dei poliziotti, in parte esonerati dal compito di secondini, probabilmente una maggiore attenzione alle prescrizioni della direttiva rimpatri. Un pizzico di umanità in più (se trovano i soldi.)

Una polpetta avvelenata con una spolverata di zucchero.




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