Cile. Memoria resistente

Scritto dasu 11 Settembre 2013

cile_golpeIl ricordo dell’11 settembre 1973 è impresso indelebilmente nel DNA di una generazione di compagni. La fine violenta del governo socialista, la durissima repressione nei quartieri e nelle fabbriche, dove la pratica dell’azione diretta, dell’occupazione, dell’autogestione, stava infliggendo duri colpi alla società di classe, fu un duro colpo per i movimenti sociali che in Italia stavano giocando la loro partita. Il Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer ne profittò per rafforzare la politica di collaborazione con l’area cattolica inaugurata da Togliatti nel 1945. Con il pretesto di evitare un colpo di stato militare sponsorizzato dagli Stati Uniti Berlinguer promosse una politica di unità nazionale e di compromesso con la Democrazia Cristiana, il maggiore partito di governo dal dopoguerra in poi.

Ne abbiamo parlato con Massimo, un compagno che ha attraversato quegli anni e ne ricostruisce il clima.
Ascolta la diretta:

Massimo Cile

Abbiamo ascoltato la testimonianza di Urbano, esule cileno anarchico.
Urbano era il suo nome di battaglia, quello che adottò durante la clandestinità in Cile. Un Cile che Urbano non vede dal lontano 1974, quando, dopo aver occupato con altri l’ambasciata italiana a Santiago, giunse esule nel nostro paese. Inarrestabile nel suo impegno contro la dittatura di Pinochet, Urbano nel nostro paese è stato impegnato nelle lotte per la difesa dell’ambiente, per la libertà dei migranti, contro ogni forma di oppressione. Oggi è in prima fila nella lotta contro il terzo valico e le discariche.
L’11 settembre 1973 a Santiago venne bombardata la Moneda, il palazzo del governo presieduto dal socialista Allende, che vi trovò la morte. Poi la repressione passò nei barrios, nei quartieri della periferia, dove il popolo delle baracche aveva occupato le case in muratura destinate ai militari. Urbano, che una casa vera non l’aveva mai conosciuta sin dalla più tenera infanzia, aveva occupato con la famiglia una casa nel quartiere “Poblacion Guatemala”. Ma era difficile trovarcelo perché lui come tanti passava gran parte del tempo negli accampamenti dei senza casa dove si programmavano le lotte per nuove occupazioni di terre e case. Contro il percorso di libertà e dignità di un popolo si abbatté il terrorismo dei militari sostenuti dal governo statunitense.
Ascolta la diretta:

Urbano def

Abbiamo chiesto ad Urbano di raccontarci il suo 11 settembre.

“All’epoca io ed altri compagni eravamo già in clandestinità: il governo Allende ci perseguitava per le occupazioni di terre e la guerra contro il mercato nero. Nel sud di Santiago, una zona che era cresciuta sin dagli anni ’50 con le occupazioni di terre demaniali e dei latifondi, nel 1971 abbiamo iniziato l’autogestione della distribuzione di alimenti alla popolazione. Abbiamo così pestato molti autorevoli piedi: in primo luogo quello dei padroni della distribuzione ma anche quelli dei Partiti socialista e comunista che intendevano gestire in comune con i commercianti la distribuzione del cibo, imponendo prezzi esosissimi, mentre l’autogestione garantiva prezzi equi per tutti. Lo stesso programma governativo per le terre abbandonate privilegiava nei fatti i militanti socialisti e comunisti, tenendo fuori tanta parte della popolazione. Questa situazione ci ha cacciato nella clandestinità: il governo Allende dichiarò illegali le nostre attività e le organizzazioni libertarie. All’epoca eravamo impegnati anche sul fronte della solidarietà internazionale con gli esuli provenienti da tutto il Sud America perché perseguitati nei loro paesi. Il governo socialista cileno non concedeva loro asilo politico: questi compagni lo ottenevano da noi. Erano ospitati nei quartieri occupati e lottavano al nostro fianco per le libertà ed i diritti di tutti. Il governo ci considerava alla stregua di delinquenti comuni e ci perseguitava: il nostro rifugio erano i quartieri occupati, dove la gente ci ospitava e proteggeva.
Prima dell’11 settembre ormai in tanti sapevamo che il golpe era imminente. Nei mesi precedenti era passata una legge sul controllo delle armi, la cosiddetta “Ley Maldita” che lo stesso Allende aveva consentito: ufficialmente doveva servire per disarmare i fascisti che attaccavano le zone popolari ma, nei fatti, la legge venne applicata solo contro di noi, contro i sindacati, contro il “cordone industriale” delle fabbriche occupate e dei quartieri autogestiti. In realtà noi non eravamo armati: il governo socialista non aprì mai i suoi arsenali al popolo che, quando avvenne il golpe, non aveva che poche vecchie pistole.
Quell’11 settembre ero a casa di un compagno. Appena vengo a sapere che il sollevamento militare era iniziato mi reco alla “La Bandera” uno dei tanti quartieri occupati. Con la gente raccogliamo le armi disponibili: saltano fuori una quarantina di pistole. Poi smontiamo la baracca della distribuzione autogestita, consegnando alla popolazione tutte le derrate che vi erano custodite. Con le armi a disposizione iniziamo la resistenza, passando da un barrio all’altro nell’intera zona sud. La battaglia più dura si farà nel quartiere “La Legua”, quello dove sono nato io, lì i lavoratori di una fabbrica tessile occupata, la Sumar, che si erano opposti a colpi di arma da fuoco alla consegna delle armi imposta dai militari, resisteranno a lungo. Per rastrellare “La Legua” i militari impiegheranno ben tre reggimenti, carri armati, aerei per stroncare la resistenza popolare. Finirà con un massacro: oltre 400 saranno le vittime della loro ferocia.
Io ed altri continuiamo a raccogliere armi, passando attraverso i vari quartieri e ponendo le basi di una resistenza, che soffocata nel sangue la lotta popolare, diviene presto clandestina. La cassa delle distribuzioni autogestite ci servirà per finanziare la lotta clandestina contro la dittatura. I soldi resteranno a lungo presso un compagno, un calzolaio come me, prima di essere consegnati ai compagni in clandestinità, per contribuire a tessere una rete di opposizione e per aiutare a fuggire e dare sostegno alle famiglie dei ricercati.
Il 27 settembre vengo arrestato nel quartiere “Guatemala”. Nel rastrellamento veniamo catturati in 32 e portati ad un campo di concentramento dell’aviazione a San Bernardo, nei pressi di Santiago.

Cosa ti capita?

“Vengo torturato, sottoposto ad una finta fucilazione per obbligarmi a parlare, a fare i nomi dei compagni e dire dove si trovano. Dopo 3 giorni io e gli altri 32 veniamo portati allo Stadio Nazionale dove erano rinchiusi migliaia di oppositori. Veniamo nuovamente sottoposti a tortura e messi nell’elenco di quelli destinati alla fucilazione.
Sono stato fortunato: proprio in quei giorni il grande clamore suscitato a livello internazionale dai massacri di Pinochet induce le Nazioni Unite ad inviare una Commissione per verificare la violazione dei diritti umani. Pinochet fa un’operazione di facciata: mentre le fucilazioni continuano nell’intero paese decide di liberare di fronte alla stampa alcune centinaia di persone. Io e gli altri 32 veniamo rilasciati. Mi guardo bene dal ripresentarmi in caserma, come prescritto al momento del rilascio, e torno in clandestinità sino alla fine del ’74.”

Urbano, tu non sei mai tornato nel tuo paese… Sappiamo che i militari hanno condannato a morte te e tua sorella, un tuo fratello morì sotto i colpi dei golpisti, ma oggi, dopo il ritorno della democrazia, perché non torni in Cile?

“Probabilmente, dopo le condanne che mi hanno inflitto, mi attende lì una galera democratica. Ma non è questo il vero motivo per cui non torno. In Cile vige la stessa costituzione in atto durante la dittatura, le condizioni di vita, di lavoro sono sempre più gravi.
Il Cile è il luogo della mia giovinezza, della lotta della prima parte della mia vita. Oggi, dopo 38 anni di vita da esiliato, il mio terreno di lotta, da anarchico ed internazionalista è qui dove vivo, dove la “democrazia reale” non si mostra meno dura verso chi le si oppone, cercando di costruire una società libera e solidale.


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