Tunisia. Tra crisi, rivolta sociale e jihad
Scritto dainfosu 16 Maggio 2017
Le prime elezioni municipali dopo “Rivoluzione dei gelsomini” si svolgeranno entro la fine dell’anno. Lo ha dichiarato la scorsa settimana il presidente della repubblica Beji Caid Essebsi, in discorso alla nazione, che ha toccato i principali nodi problematici emersi dalle piazze. E che ha nel mancato decentramento del potere verso le amministrazioni locali – previsto dalla nuova Costituzione – uno dei suoi nodi.
Rabbia e richieste di «pane e dignità» tornano ad infiammare le zone interne del paese, svantaggiate rispetto alla costa. Una protesta sociale simile a quella che nel 2011 partì da Sidi Bouzid per travolgere il paese e il regime di Ben Ali. Per questo Essebsi nel suo discorso ha annunciato che d’ora in poi ci sarà l’esercito a difesa dei siti industriali e delle principali fonti produttive (fosfato, petrolio, gas), spesso bloccate dalle proteste dei giovani disoccupati.
L’ordine, emanato d’intesa con il Consiglio per la sicurezza nazionale, è destinato a sollevare nuove polemiche.
A fine marzo nel governatorato di Tataouine, nel sud, alcuni giovani disoccupati hanno ostacolato le attività di diverse compagnie petrolifere bloccandone il trasporto stradale.
All’inizio di aprile il Kef, nel nord-ovest, è insorto per la chiusura di una fabbrica di cavi elettrici della società tedesca Coroplast, intenzionata a rilocalizzare la produzione ad Hammamet, lasciando a casa 430 lavoratori (in maggioranza donne). Hammamet è logisticamente meglio connessa.
Il 19 aprile i disoccupati di Jendouba, sempre nel nord-ovest, hanno manifestato domandando a gran voce una soluzione per la cronica mancanza di opportunità di impiego nella zona, mentre il 20 aprile uno sciopero generale è stato indetto a Kef.
Crescono le tensioni intorno al polo siderurgico di El Fouladh, che il governo vorrebbe cedere a investitori esteri, nonostante l’opposizione dei lavoratori.
Il vento della Jhad
Sempre più forti sono invece i segnali di un’offensiva islamista dal sud che spaccherebbe in due il paese, portandolo alla guerra civile.
Sono 27.371 i tunisini aspiranti jihadisti cui le autorità del Paese hanno impedito di raggiungere i territori di combattimento. Lo ha affermato il 20 aprile il ministro dell’Interno di Tunisi, Hedi Mejboub, durante un’audizione al Parlamento del Bardo precisando che dei 3.000 jihadisti di nazionalità tunisina che si trovano ancora nelle zone di conflitto, il 60% è in Siria, il 30% in Libia e il restante 10% disperso in altri paesi. Il 96% di questi combattenti è rappresentato da uomini di età compresa tra i 24 e i 35 anni.
Per quanto riguarda invece i foreign fighters di ritorno Mejdoub ha sottolineato che degli 800 ufficialmente tornati in Tunisia, 190 si trovano attualmente in carcere, 37 in libertà controllata mentre 55 sono stati uccisi dalle forze dell’ordine durante azioni di guerra in Tunisia.
La Tunisia è il paese da cui è partito il maggior numero di combattenti della jhad: è più che un’ipotesi la tesi che, specie al sud le tensioni sociali possano incanalarsi nella guerra santa.
Ne abbiamo parlato con Karim Metref, blogger, insegnante, scrittore di origine kabila.
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