La peste: grande lavoro per gli artisti, grandi occasioni per i potenti

Scritto dasu 10 Aprile 2020

Proseguiamo a indagare le modalità che il linguaggio adotta per affrontare, tramandare e rimuovere la pestilenza con Franco Fanelli, vicedirettore de “Il Giornale dell’Arte”, per comprendere sulla scorta del passato quali dispositivi possono embrionalmente cominciare a riempire testi iconici volti a rappresentare questa nuova “pestilenza”.

Ne sono discesi risvolti interessanti, percorrendo in particolare l’epoca della peste trecentesca – quella del Decameron – e quella secentesca manzoniana, con tratti particolari che percorrono tutte quelle epoche e l’ascesa di figure agiografiche (santi in quell’epoca, eroi dicevamo linguisticamente in questo frangente, ma oggi Bergoglio ha nominato “santi della porta accanto” i medici, canonizzati sull’entusiasmo, come san Rocco o san Sebastiano nei secoli passati); in fondo la peste ha sempre prodotto nuovi posti di lavoro (come ora i pellegrini del teleschermo che passano per tecnici), ma soprattutto è stata utile per schiacciare il popolo – proprio come se fosse colpa sua la peste (in questo la forma repressiva delegata alle solite guardie anche oggi sortisce questo effetto).

E colui che assurgeva a un ruolo preminente, al centro dell’attenzione nei quadri e nella realtà era il potere (allora il papa, ora il Conte) che si ergeva a risolutore, pur non conoscendo affatto la natura del morbo, le sue caratteristiche e il potenziale antidoto. L’imperatore taumaturgo, come il san Carlone, che con mezzi spicci risolvevano probabilmente nelle modalità che sono anche di Kim Jong-un, eliminando i contaminati.

 

In tempi recenti il morbo colpiva determinate tipologie di persone, spesso artisti – per cui si svilupparono forme molto intime di rappresentazione dell’HIV –, però non tutti senza discriminante alcuna, anzi era un collante per la comunità che condivideva il contagio; oltretutto nel caso dell’Aids gli intellettuali direttamente coinvolti avevano una preparazione precisa e molto connotata, sviluppando dunque una tipologia di arte potente ma svincolata dal resto del mondo, che non esperisce lo stesso disagio.

 

 

 

 

Lo stato dell’Arte è fermo: bloccato il mercato, le esposizioni impossibili, le fiere e la sociolizzazione sottratta delle vernici… – almeno per molti mesi, un anno forse, musei, gallerie e aste chiuse e quindi la domanda è “Cosa rimarrà dopo?”

Una rappresentazione iconica della pandemia attuale non potrà che cercare di esprimere l’interrelazione ma la tradizione e l’esperienza plurisecolare hanno consentito a un gesuita collocato sulla soglia papale di fornire l’iconografia più efficace e suggestiva, che riassume la solitudine di ciascuno durante le quarantene, che si può riconoscere nella figura vacillante per la lunga immobilità, nella via deserta, quasi unico sopravvissuto nella città metafisica dechirichiana… in tempi di spettacoli proibiti chi fa del rituale la propria forza da millenni – e da millenni vieta le rappresentazioni che esulano dalla sua storia – ed è sostenuto anche da quinte sceniche che si è costruito nei secoli, non può che continuare a rappresentare la fase storica, quando questa cancella le sicurezze della mondanità.


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