I prigionieri del Caucaso: nazionalismi per procura…

Scritto dasu 3 Ottobre 2020

… e guerre procurate dagli autocrati per interessi energetici (i molti gasdotti che incrociano il Caucaso) e per innescare conflitti remunerativi per l’industria delle armi e per il prestigio derivante dal controllo di territori privi di risorse ma che accendono da sempre rivendicazioni nazionaliste per la secolare identità condivisa dalle comunità coese sudcaucasiche, che per questo si differenziano dalla convivenza di molteplici stirpi diverse nel Nord del Caucaso; per quanto Ossetia e Abkhazia siano le uniche due realtà che riconoscono l’autonomia del Nagorno Karabach (perché si trovano in una situazione analoga a quella degli irredentisti dell’Artsakh al centro del conflitto esploso nuovamente a fine settembre).

Dispute di territori che affondano in eccidi, pogrom, massacri che da secoli percorrono il Caucaso, contrapponendo cultura occidentale cristiana stanziale a quella asiatica azera sostenuta dai turchi che hanno intrecciato la loro storia con quella armena, alla stregua di quella curda, perché la Turchia quando intende perseguire i sogni ottomani di controllo dei territori dal golfo Persico alle steppe centrali deve necessariamente eseguire pulizie etniche di popolazioni aliene al sultanato.

Di contro l’attuale Armenia si fonda su una Rivoluzione di velluto che ha portato Pashinyan al potere sull’onda del pacifismo e di una presa di coscienza collettiva che due anni fa ha cacciato l’oligarchia corrotta. Tanto che è sorprendente il linguaggio bellicista adottato in questo frangente dai protagonisti stessi di quel Movimento pacifico che era regolato su parole d’ordine volte a concludere il contenzioso con l’Azerbaijan della dinastia affaristica degli Aliyev, portato diretto della dissoluzione dell’Urss. L’Azerbaijan è sostanzialmente un territorio attraversato da pipeline, ma anche una lavanderia per denaro sporco; da sempre palestra per le esibizioni di forza turche e anche in questo caso Erdoğan non poteva farsi sfuggire l’occasione di scaricare migliaia di jihadisti attinti dal serbatoio di mercenari ereditati dalla guerra siriana: contratti da 6 a 10 mesi con un salario mensile di 10mila lire turche (circa mille euro), un migliaio di mercenari in divisa azera aviotrasportati da aerei turchi.

E allora si può cominciare a capire meglio il travaglio attuale di Kars, città che aveva eletto un sindaco Hdp, incarcerato e sostituito con il prefetto (che venerdì 2 ottobre ha pubblicamente pregato davanti al Comune): collocata strategicamente al confine con l’Armenia è un essenziale snodo per la logistica militare del conflitto.

Ma ancora più interessante è tentare di capire il ruolo delle comunità coinvolte, come viene stravolta l’esistenza ancora una volta, qual è il sentire comune delle genti che vivono nell’enclave armena in territorio azero, cosa scatena il nazionalismo da entrambi i lati, quali interessi locali coinvolge realmente il conflitto, al di là di quelli che sono indubbiamente le mire delle potenze globali.

Lo abbiamo chiesto a Teresa Di Mauro, collaboratrice dell’“Atlante delle Guerre” ed esperta di vicende caucasiche.

 

 


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