La truffa del petrolio lucano

Scritto dasu 12 Aprile 2016

Più di tremila giovani ogni anno lasciano la Basilicata. Le trivelle continuano a pompare una ricchezza che non li sfiora. E loro vanno via dalla regione più povera d’Italia dove il 31,6% di chi ha dai 15 ai 34 anni non ha uno straccio di lavoro, e più del 28% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.
Dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come sosteneva il governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.

Per capire il grande inganno del petrolio bisogna dare un’occhiata ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.

L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalty che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalty sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.

Nel 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere.

Un bel business. La recente inchiesta che ha obbligato alle dimissioni la ministra Guidi e fatto traballare il governo non è destinata a cambiare gli affari ma solo a regolare i conti all’interno dell’attuale classe dirigente.
Il malaffare è normale nell’assegnazione di appalti e concessioni. Di tanto in tanto un’inchiesta manda all’aria equilibri consolidati. Ma è solo questione di tempo. Il tempo necessario a mettere in sella altri attori nell’eterna sceneggiata della spartizione dei beni pubblici a fini privati.
In Basilicata restano i danni alla salute e all’ambiente, senza neppure i benefici delle royalty.

Ce ne ha parlato Francesco.

Ascolta la diretta:

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