Afghanistan, gli Usa non se ne vanno: economia di guerra e narcotraffico

Scritto dasu 9 Luglio 2016

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Tra le molte notizie geopolitiche di questo periodo concitato e confuso due hanno creato in noi una sorta di cortocircuito: il dato quasi del tutto occultato dai mezzi d’informazione sul primato invariato nella produzione di oppiacei saldamente in mano all’Afghanistan e il maggiormente diffuso aumento delle truppe americane di stanza in Afghanistan per tutto il 2017, che non ha alcuna influenza sulla diminuzione di produzione, che se c’è stata è dovuta a cause climatiche, e non è certo deterrente nei confronti dell’espansione sul territorio della presenza talebana, visto che controllano aree geografiche più estese dell’epoca dell’intervento americano.

Allora ci siamo rivolti a Emanuele Giordana per capire meglio cosa sta succedendo in Afghanistan

La presenza di 8400 militari serve a mala pena per mantenere la sicurezza delle basi nel territorio afgano, che svolgono operazioni tenute segrete e effettuate esclusivamente con i droni, che hanno un’alta incidenza di “effetti collaterali” nel tentativo di eliminare capi talebani, oltretutto andando a colpire proprio quelli con cui si sarebbe potuta avviare una trattativa (come nel caso di Mansour, ucciso a maggio e sostituito prontamente con un leader meno propenso alla trattativa), per cui sembra che in realtà la strategia non preveda la composizione del conflitto e il ritiro, ma anzi ponga le basi per mantenere la presenza americana nell’area. Cosa peraltro benaccetta dai potenti locali, che speso coincidono con i signori della guerra, che continuano a dividersi il potere e i proventi del narcotraffico.

Dopo tanti anni di guerra guerreggiata si è dimostrato che l’intervento occidentale non ha risolto i problemi di sicurezza nemmeno a Kabul e la riduzione di uomini (per esempio il contingente italiano è ridotto a 800 da 4000 che erano) si riverbera in una riduzione di spese, quelle per il mantenimento e la logistica, gli appalti: per esempio quelli assegnati senza nemmeno la gara per l’approvvigionamento di scarponi dell’esercito di occupazione – per una truppa di 300 mila uomini si trattava di una grossa commessa, riducendo la presenza di militari, si contrae anche il provento a disposizione fino alla sospensione del bando e al passaggio al governo afghano del compito di fornire gli stivali: era più conveniente l’acquisto in Pakistan e la ditta afghana è fallita. Insomma produce ricchezza tutto ciò che è relativo al contingente, che a sua volta spende nel territorio i propri soldi per gli acquisti, consentendo la sopravvivenza di un’economia di guerra, forse l’unica con il narcotraffico nel paese. Con il rallentamento della economia afghana di guerra, la svalutazione della moneta può rilanciare le ditte locali rispetto alla concorrenza dei paesi limitrofi, ma con la discesa della domanda dell’economia di guerra la situazione rimane grave, per questo il governo spinge per il mantenimento delle forze di occupazione e lo stanziamento di fondi ulteriori (con la scusa della sicurezza dal 2001 l’Occidente ha investito 91 miliardi senza ottenere alcun risultato).

Un mantenimento di una condizione di guerra su cui si può riflettere dopo il rapporto Clichot che denuncia ridicolmente a 13 anni di distanza dalla decisione di scatenare una guerra devastante in Iraq, che era stata già evidentemente decisa, su dati raffazzonati su internet: la situazione afgana è più complessa ancora, dove esiste una presenza militare straniera, un controllo di basi militari e nessuno ha mai immaginato che la forza militare straniera si possa ritirare, conferendo ai talebani la loro vera ragione di rafforzamento su base nazionalista. Questa precondizione di ritiro sarebbe la premessa per immaginare una forza di interposizione non combattente, in accordo con tutti i soggetti e che sia di garanzia, preludio a una vera trattativa di pace; i talebani potrebbero accettarla, ma ovviamente non possono acconsentire a questo processo negoziale (che deve essere condotto solo tra afgani) con una presenza di militari stranieri che non accenna a diminuire.

L’altro business del paese è quello legato alla coltivazione e alla lavorazione degli oppiacei. Gli americani avevano detto che avrebbero stroncato il traffico di droga, ma poi hanno chiuso un occhio , perché è un’economia che non coinvolge contadini poveri, ma sono i potentati a controllarlo. Oltre che venire smerciata nei classici paesi consumatori, ora è la Russia a essere tra i paesi più preoccupati dal traffico di stupefacenti afghani, che in parte ora si ferma anche sul mercato locale, un fenomeno anodino che produce nuovi problemi, perché manca la tradizione di strutture di assistenza medico-sanitaria (supporto psicologico, distribuzione di metadone, disintossicazione e reinserimento…).

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A fronte di questa analisi, illustrata ieri ai nostri – un po’ acciaccati – microfoni da Emanuele Giordana, non poteva che venire deciso al vertice Nato di Varsavia di oggi, 9 luglio 2016, il rinnovo dell’impegno militare per l’Afghanistan e quello economico fino al 2020, permettendo al primo presidente afromericano di rientrare in anticipo a Washington, dopo aver imposto ai partner questa decisione, per affrontare  la ribellione dei neri americani, con l’esasperazione di un militante di un gruppo inneggiante a Huey Newton, che può far sperare nella resurrezione delle Black Panthers, Micah Xavier Johnson era stato inviato in Afghanistan tra il 2013 e il 2014.

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